La critica di Luigi Russo (1961)

La critica di Luigi Russo, «Belfagor», a. XVI, n. 6, Firenze, 30 novembre 1961, pp. 698-734; poi in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit. e in W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, e altri scritti di metodologia, cit.

LA CRITICA DI LUIGI RUSSO

Sarebbe facile e forse piú vistosamente efficace centrare la presentazione della figura di Luigi Russo critico, storico e metodologo della letteratura in alcuni suoi ideali e problemi di poetica, di critica e di storiografia che balzano potenti e prepotenti da tutta la sua opera e caratterizzano la sua posizione essenziale entro il quadro della critica novecentesca. Ma una simile diagnosi centrale farebbe perdere di vista quella che è pure una caratteristica fondamentale della personalità del Russo: la sua dinamica forza di sviluppo e di presenza varia e rinnovata entro la storia della sua età e dei problemi e delle esperienze che l’hanno sollecitata ad esprimersi, ad affermarsi, a incidere il suo vigorosissimo segno entro un vivo ricambio con le offerte del tempo critico e civile in cui si profila la sua vita attiva, instancabile, profondamente appassionata, dotata di un fondo personale autentico e inconfondibile, fedele ad alcune istanze centrali, ma sempre pronta a spostarle, rinnovarle, arricchirle.

Perché Russo, come fu un critico antiaccademico e mosso nella stessa successione dei suoi temi di studio da una scelta insieme interna e affiatata con i problemi vivi del suo tempo, cosí non fu affatto un semplice applicatore ripetitorio di una formula metodologica fissa e dogmatica, e una fondamentale irrequietezza, una tensione di autocritica e di svolgimento, corrispondente alla sua tensione morale e alla sua profonda sensibilità storica, lo impegnarono in un assiduo lavoro di interno rinnovamento e superamento, da lui configurato addirittura come una delle stesse necessarie condizioni di vita di ogni vero critico: «Uno che fa professione di letteratura deve proporsi come meta assidua di tutti i suoi sforzi quotidiani di rinfrescare la sua sensibilità e di rinnovare i canoni di giudizio»[1].

E al suo storicismo «costituzionale» corrispose nella sua vita e nel suo svolgimento una ben storicistica disposizione a vivere i propri problemi sempre in rapporto col mobile, incessante arricchimento interiore e con il coerente intervento nello svilupparsi dei problemi critici, estetici, etico-politici della cultura e della vita storica contemporanea. Donde anche quel suo caratteristico modo di ripresa e di risviluppo persino stilistico dei propri libri al nuovo livello di nuove fasi del proprio svolgimento entro la storia, il suo esplicito bisogno e rovello di autocritica nelle prefazioni delle nuove edizioni (ma insieme di sano riconoscimento della propria coerenza evolutiva) e persino in quelle singolari autorecensioni su «Belfagor», o in quei tardi articoli di autobiografia e di ricordi di conversazioni crociane in cui sempre spicca non un edonistico accarezzamento del ricordo e della propria cara vita vissuta, ma l’assillo dello storico a render conto del suo svolgimento, della coerenza fra unità e dinamicità della sua personalità, delle ragioni profonde e storiche dei suoi passaggi e progressi mentali e critici, non diversamente dal modo con cui egli magistralmente tracciava le linee evolutive dei propri autori o dei problemi critici o dei personaggi artistici o delle epoche storico-letterarie. Mentre cosí nella sua critica come nella sua vita rifiutava con pari vigore le facili «conversioni», l’avventurosità dispersiva degli «ulissidi», e ritrovava una profonda moralità e classicità nella fedeltà centrale e dinamica alle proprie vocazioni e al proprio indirizzo mentale.

Cosí nel tracciare la storia di Luigi Russo critico, storico e metodologo (dimensioni fra di loro coerenti e collaboranti in reciproco stimolo) sarà doveroso scandirne il piú possibile le fasi e i movimenti e insieme verificarne l’intima sostanziale coerenza e il rimando ad istanze centrali dello studioso e dell’uomo accertabili sin dagli inizi della sua appassionata e appassionante vicenda, in cui non si potranno cogliere mai rifiuti o flessioni volontarie di impegno personale e di collaborazione storica.

Fin da quella tesi di laurea sul Metastasio (1914-1915) che fece in seguito «trepidare» il Russo per la scelta di un autore «alienissimo dal suo temperamento» e per il timore quasi di una propria origine arcadica[2], ma in cui il giovane studioso dava prova delle sue native capacità critiche riuscendo a individuare (con un importante contributo effettivo al problema metastasiano) la poesia «modesta ma genuina» del poeta melodrammatico nella sua tendenza idillica separata energicamente dalle carducciane ipervalutazioni della vena eroico-romana: e dunque in una direzione che pur riaffermava l’inclusione del Metastasio nella «vecchia letteratura», incapace di unitaria vita poetico-morale, e implicava cosí, su base desanctisiana, l’avvio all’istanza russiana di una poetica moderna nel rapporto unitario fra forza morale e impulso poetico[3]. Mentre, pur nelle forme piú accademiche di una tesi «1914» e con qualche residuo della scuola flaminiana, quell’opera iniziava un effettivo svincolamento del pigro epigonismo del metodo storico-positivistico non sulla via, da altri allora percorsa, dello psicologismo o dell’impressionismo, ma su quella di una prima manifestazione di uno storicismo «costituzionale»[4] appoggiato al De Sanctis (fra Storia della letteratura e saggio sul Leopardi) e svolto con effettiva anche se acerba novità fra la nuova utilizzazione della «letteratura sull’argomento» in storia del problema critico (e, nell’accurata ed acuta storia dei giudizi dei contemporanei e delle dichiarazioni estetiche e programmatiche del Metastasio, in forma di comprensione della particolare storicità e della poetica del Metastasio[5]) e l’adozione di un diagramma di svolgimento del poeta nel raccordo fra biografia interiore, storia dell’epoca e poesia al di là del positivistico modulo di Leben und Werke. E già in quell’opera le analisi e i paragoni distintivi (come quello illuminante sulle riprese riduttive di modelli tasseschi nella poesia metastasiana) funzionavano in rapporto alla ricostruzione organica e dinamica dello scrittore, mentre la tendenza a cogliere le distinzioni fra poesia, oratoria, letteratura, con cui il giovane Russo accoglieva essenziali distinzioni crociane[6], si impostava già in un energico modo del loro rilievo dall’interno della personalità dello scrittore nel suo svolgimento e nella sua dialettica dinamica.

Anche a non voler forzare troppo queste indicazioni e a conservare loro certa acerbità e certa parziale consonanza scolastica con forme e residui positivistici (l’insistenza, ad esempio, sull’«ambiente»), ce n’è abbastanza per segnalare già in quel libro la presenza di una personalità vigorosa e rinnovatrice di concreti problemi particolari[7] e di modi di accostamento alla poesia e alla storia letteraria: e basti ancora notare, come segni propri anche se immaturi del Russo piú vichiano-desanctisiano, l’accentuazione della «coscienza ebbra»[8] con cui il poeta ispirato compone, l’insistenza sul nucleo lirico a scapito della considerazione della forma teatrale (che è spesso un limite ritornante nelle valutazioni del Russo di poeti teatrali, come nel caso dell’Alfieri: limite, ma anche segno della sua tensione al centro personale piú assoluto) e d’altra parte la stessa frequenza di battute morali come caratteristiche del temperamento umano del critico anche in questa piú castigata e frenata tesi accademica[9].

Fuori della quale, subito dopo l’esperienza della guerra (cosí intensamente vissuta fra l’esercizio di un dovere e l’amarezza formatrice delle delusioni della retorica, della faciloneria, dell’arrivismo sofferto nel vivo di una nobile ingenuità di eredità risorgimentale[10]), gli umori morali, che già serpeggiavano nella tesi, ebbero sbocco irruente e quasi pletorico in quelle lezioni di Vita e disciplina militare (1917)[11] che non possono d’altra parte escludersi dal vivo circolo della formazione del critico storicista e moralista, i cui miti critici venivano rinforzati da un entusiastico affiatamento con lo storicismo idealistico e soprattutto con il pedagogismo gentiliano: sia nella piú forte accentuazione della risoluzione di cultura letteraria e umanistica in cultura storica («la vera cultura umanistica è la cultura storica»[12]), sia in quell’insistenza sulla immedesimazione della coscienza dell’agire pratico e poetico nella concreta azione come nella concreta poesia[13], che rinsaldava l’unità interna delle varie direzioni spirituali e che, distinguendo tale coscienza attiva (inerente alla polemica contro l’«ottativo», la vaga e irresoluta intenzionalità[14]) da una pura coscienza riflessa e a posteriori, ci dice molto sul complesso tormento da cui nascerà poi in Russo la stessa nozione di poetica, tanto piú chiaramente legata, in questa fase giovanile, a quella impostazione di un idealista fortemente impregnato di desanctisianesimo e di vichianesimo da cui nasce il primo grande libro del Russo, il Verga, del 1920.

Libro che insieme trae la sua freschezza e originalità personale e storica dall’affiatamento organico fra esigenze metodologico-estetiche, posizioni polemiche non puramente letterarie (di cui l’aspetto piú generale e civile si esplica negli scritti del ’18-19 su «Volontà» che, sulla base fervida, anche se provvisoria, delle reazioni del «combattente» della guerra mondiale alla situazione drammatica del dopoguerra, battono sulla riconquista liberale e postrisorgimentale dell’unità della coscienza, sul dissenso desanctisiano dall’«ingegno per l’ingegno»[15], sul valore di un idealismo concreto distinto dall’avventuroso e qualunquistico idealismo militante prezzoliniano) e una direzione di poetica moderna idealistico-realistica (ripresa a nuovo livello dell’ultima battaglia desanctisiana per un realismo in cui fosse immedesimato e incarnato l’ideale) che in quegli anni cosí nettamente caratterizzava il Russo di fronte all’intreccio di postumi vociani, di svolgimenti di poesia pura postsimbolistica, di richiami all’ordine di tipo rondistico, per non dire della bassa letteratura «commerciale» da lui in quel tempo cosí energicamente attaccata e individuata nelle sue origini sociali dalle basse voglie di una nuova borghesia avida e incolta.

E, se la nuova edizione del 1941 mostra chiaramente un ripensamento e una maturazione di pensiero e di stile tanto piú armonica ed equilibrata (e l’autore nell’avvertenza a quella nuova edizione parlava di «un tono piú storico e critico e meno polemico e difensivo» e di un «rinfrescamento» di stile[16] che implicava la riduzione delle lunghe parafrasi delle opere verghiane e dell’eccessivo mimetismo dello stile verghiano, pur segno dell’appassionata immedesimazione del critico con l’autore), il volumetto del ’20 conserva, per chi studi la personalità del Russo nelle varie fasi della sua presenza storica, un sapore aspro affascinante e una forza di novità esplosiva. E questa, concretandosi nella lotta per una nuova poetica e contro tutto ciò che di falso, impuro, artificioso, stancamente tradizionalistico (e non importa se con una mancanza di piú pacata comprensione degli elementi vivi di quel tempo corrispondente comunque ad un orientamento proprio di poetica realistica storicamente importante) il Russo avvertiva nella letteratura di quegli anni, e facendo leva su una specie di coscienza nuova del proprio temperamento e della propria colta «barbarie», della propria origine isolana in un mondo primitivo e dolorosamente religioso, e della sua coincidenza con gli ideali antidecadenti di un crocianesimo fortemente rinverginato nelle sue origini desanctisiane e soprattutto vichiane, si realizzava criticamente[17] nella scoperta di uno scrittore grande e congeniale, poeta e «maestro di vita», regionale e insieme classico, aedo di un mondo doloroso e autentico, poeta vichianamente primitivo e desanctisianamente realistico, capace di vivere organicamente le sue ragioni morali e storiche in un unitario afflato poetico. Sicché anche il problema della lingua era fatto coincidere interamente con quello poetico («sicché risolto questo è risolto anche il primo»[18]), e, con una insistenza che le posizioni 1941 smussavano e correggevano (piú fortemente ricollegando il «primitivo» alla riconquista della verginità poetica su di un’ecatombe di cultura), qui si batteva quasi spasmodicamente sull’arte «sana e semplice» del Verga, sulla sua posizione «antiletteraria», «antiaulica», «antivirtuosa», di poeta-uomo e non di «poeta di scuola». Potente atto di fede nella poesia unitaria e profondamente umana da cui germoglia la centrale intuizione russiana dell’«umanità-forma» e che – poi meglio sorretto dalle successive e fondamentali intuizioni sul valore della cultura e dell’ars che superano le posizioni giovanili piú ingenue e parziali[19] reperibili in questo libro – si concreta in una interpretazione e ricostruzione critica della personalità poetica verghiana capace di verificare la potenza di una poesia e sin «melodia» che nasce dal realistico «sunt lacrimae rerum», e dal riscatto dell’uomo nel bruto, e di intuire, entro la solitudine personale del poeta, aliena dalle tesi e dagli impegni umanitari, un’effettiva illuminazione della realtà sociale[20], anticipando da lontano le direttive russiane di uno storicismo lirico-simbolico e delle sue nozioni di politicità e socialità trascendentali della poesia. Mentre lo storicismo fondamentale del Russo veniva di nuovo piú congenialmente attuato, attraverso la interiorizzazione individualizzante del vecchio «inquadramento» storico, nella ricostruzione dinamica e dialettica dello svolgimento morale-artistico del poeta (entro cui il verismo non è né reso dominatore della visione personale del Verga né rifiutato come vicinanza inutile, ma inserito nel suo svolgimento come stimolo liberatore della sua personale poetica) e si precisava anche come sentimento della concretezza risolutiva e storica dell’organico e del classico (la «circulata melodia» dei Malavoglia), per cui il Verga diventava lo storico affermatore di una nuova linea rossa di poetica realistica, organica, a suo modo «classica» di fronte al predominio dannunziano e pascoliano frammentistico, decadente, o al classicismo formalistico dei rondisti[21].

Contro questi aspetti della letteratura del dopoguerra, coerentemente alle posizioni enucleate nel Verga, il Russo riespandeva la sua diretta polemica in quel Tramonto del letterato, del 1920, che doveva poi dare il titolo all’ultima sua raccolta di saggi piú chiaramente diretti all’interpretazione etico-politica di autori otto-novecenteschi, e la cui ripresa emblematica, a nuovo livello di esigenze, voleva appunto significare il riconoscimento, da parte dell’ultimo Russo, dell’essenziale importanza di quel momento esplosivo (fra polemica e affermazione concreta di una nuova letteratura e di una nuova critica) delle posizioni piú sue e fondamentali per il suo giudizio su di una storia della letteratura italiana viziata dalla letterarietà, dalla scissione fra letteratura e morale, e poi rinnovata ora dall’immagine concreta di un nuovo scrittore antiletterato come il Verga, collegato, a ritroso, attraverso Carducci, De Sanctis, Manzoni, Leopardi, Foscolo, al Parini e soprattutto all’Alfieri. Prospettiva che rimarrà fondamentale nella diagnosi russiana della contrapposizione fra la moderna letteratura e la vecchia educata dalla Controriforma e dalla concezione formalistica e gesuitica della irresponsabilità morale e storica degli scrittori e della loro indifferenza a quella affermazione intera dell’uomo che anima, con consonanza soprattutto gentiliana[22], una pagina di quello scritto estremamente sintomatica anche per la versione che il Russo portava dell’idealismo moderno, teso, con afflato religioso moderno, ad un immanentismo concreto e ad una civiltà tutta umana, progressiva liberazione e riconoscimento dell’uomo fuori di ogni umanesimo aristocratico e classista (la punta rivolta all’uomo riconosciuto dal Verga anche nell’umanità primitiva della plebe siciliana):

Ma l’idealismo moderno è ancora, con maggiore consapevolezza, il nemico implacabile del letterato dalla doppia verità: il letterato che si strania dalla vita e spazia nel regno del suo sogno è fuori dalla grande e piú nascosta linea storica contemporanea. L’arte e la filosofia non possono sequestrarsi dalla vita e l’uomo, instaurato dal Parini, dall’Alfieri, dal Foscolo, celebrato nel suo dolore dal Leopardi, affiatato col mondo storico dal Manzoni, indagato nella storia artistica di sei secoli, con acume artistico e ardore inusitato dell’anima, dal De Sanctis, cantato nelle sue eterne risse dal Carducci, risvegliato dalla passione del Verga in quelli che la società positivistica reputava creature inferiori, oggi quest’uomo vive e si rinnova nell’ideale filosofico contemporaneo. È una nuova affermazione di cristianesimo libero e sovrachiesastico, che è il solo sigillo di modernità[23].

Donde, con un inconfondibile accento personale e una tensione unitaria e piú realistica rispetto al forte e intrecciato concorso di stimoli crociani (specie nella direzione di un nuovo classicismo: e dunque già piú del Croce dei grandi saggi di quegli anni e dei Nuovi saggi di estetica che non di quello della Estetica) e, piú fortemente, gentiliani[24], scaturiva la proposta di rivedere insieme con nuovi occhi anche la letteratura del passato e di stimolarne una nuova, coerente ad un unico ideale di critica e di poetica: «E ora sazii di letteratura, dopo il travolgente insegnamento di vita della guerra, ci volgiamo al nostro passato classico, ai nostri scrittori, maestri di umanesimo, ma maestri anche di umanità. C’è da rivedere con occhi nuovi tutta la storia della nostra letteratura da Dante al Verga e se questo è il compito della nuova storiografia, l’arte nuova di questo o di quel creatore dovrà inverare l’esigenza di totalità nella nostra nuova coscienza»[25].

Pure del ’20-21 sono due scritti russiani usufruibili a precisare una certa difficoltà del Russo nel procedere del suo concreto esercizio critico al di là dei risultati originalissimi del Verga, e una necessità di maggiore chiarimento metodologico nella discussione piú diretta col metodo crociano.

Il primo, la monografia sul Di Giacomo, che poi l’autore risentí quasi con disgusto come un abbandono troppo esuberante alla critica «estetica» e cercò di correggere e castigare nei limiti concessigli da quello che chiamò addirittura un «lebbrosario o almeno un epistolario amoroso della gioventú»[26], costituí effettivamente una prova non pienamente felice, denunciando anche un limite della componente «vichiana» (tanto meglio realizzata nel Verga) in un certo scadere del robusto mito del «primitivo» della poesia nella pericolosa insistenza sul «poeta-fanciullo». E se interne reazioni non mancavano rispetto a possibili avvicinamenti alla poetica pascoliana del «fanciullino» e negli accenni all’elaborazione non dissociabile dalla spontaneità, e se la stessa profluvie di analisi «estetiche» o psicologico-estetiche si riconduceva a una persistente tensione di ricostruzione di una personalità, di genesi interna della poesia da una particolare visione personale del poeta studiato (e amato coerentemente all’amore russiano per la poesia dialettale) contro il «sensibilismo spasimoso», e l’antistorica interpretazione tragico-romantica che egli ravvisava nell’analisi della poesia digiacomiana del De Robertis, è chiaro comunque che quella non era la strada e la possibilità vera del Russo, che fu ben capace di analisi e anche di notazioni di commento puntuali quando le appoggiò piú direttamente alla sua piú piena sensibilità «storica» e ad interpretazioni di mondi poetico-culturali-morali piú robusti e complessi.

Il secondo, Lo svolgimento dell’estetica crociana, riveste invece una ben maggiore importanza diretta, perché dall’interno del crocianesimo (ma con istanze già nuclearmente mal configurabili solo entro precisi termini di ortodossia crociana) il Russo riesce a muovere – precisate e irrobustite dal dialogo con un grande metodologo dotato di quell’esperienza piú concreta della poesia che difettava invece all’altro maestro russiano, il Gentile – le sue posizioni storicistiche in un chiarimento metodologico che, puntando energicamente sulle proposizioni piú avanzate del Croce circa la totalità, cosmicità, liricità dell’intuizione poetica, riusciva fin da allora ad allargare gli orizzonti e le disponibilità interpretative del crocianesimo: caricandone la stessa esigenza storiografica individualizzante di una tensione di ricostruzione dinamica della intera, unitaria e dialettica personalità del poeta[27], di una piú chiara intuizione del valore della sua biografia interiore in rapporto alla sua poesia[28] e di una tale condensazione di componenti storiche nella concretezza della monografia[29] che, se cosí lo storicismo russiano si difendeva dai ritorni di astratto sociologismo postromantico come quello del Borgese e dalla pura e semplice adesione al gentilianesimo, in realtà già contrastava insieme con le forme piú rigide e meno dialettiche del distinzionismo crociano di poesia e non poesia.

Come può vedersi concretamente in quella recensione, pure del ’20, alla Poesia di Ugo Foscolo del Citanna che segnava un momento importante della feconda revisione russiana del crocianesimo quando indicava nel contrasto fra la concezione materialistica e la fede poetica e idealistica nelle illusioni non la causa di un dissidio insanabile fra poesia e non poesia, ma la ragione dialettica e unitaria della poesia dei Sepolcri. E, mentre affacciava cosí una propria proposta critica concreta sul preciso problema foscoliano e una intuizione generale usufruibile nella tesi piú avanzata russiana sull’unità dialettica delle opere e delle personalità poetiche e sul nuovo problema dei rapporti dialettici struttura-poesia, cultura-poesia, presentava insieme, nel confronto tra Foscolo, Leopardi e Manzoni, l’abbozzo di un canone storiografico nel riconoscimento del «limite storico» di una personalità e di un’opera come interpretazione attiva e originale di un momento della storia, oltre il quale il poeta e l’opera non avevano il dovere e il potere di andare. Canone sentito poi sempre piú nella sua accezione piú positiva e nell’affermazione della forza lirico-simbolica dei poeti, e certo suscettibile di discussioni complesse, ma richiamato qui a documentare la forza originale di questo primo dialogo crociano del Russo, la maniera già nuova con cui si affermano, per opera sua, nell’attrito fervido con il pensiero del Croce e con il crocianesimo, nuove aperture metodologico-critiche.

Da questa discussione crociana, fondamentale per lo svolgimento del Russo, e da questa presa di coscienza piú chiara delle sue posizioni metodologiche dialetticamente rapportate ad una linea centrale nella critica italiana dell’epoca, egli poté passare ad una nuova fase di esercizio critico e storico diretto nella stesura del discorso introduttivo e nelle note monografiche dei Narratori (1923), nel saggio su Abba (1925) e nel libro su Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, pubblicato nel ’28, ma scritto in gran parte già nel ’24 al termine di quel periodo napoletano che poi il Russo rivide come il piú fervido e formativo della sua vita nella fase di piú diretto dialogo con Croce, Gentile, Omodeo, Flora, De Ruggiero, Fortunato.

Nei Narratori colpiscono una nuova velocità e incisività di giudizio e di definizione sintetica dell’arte, della personalità, dei rapporti letterari e politici di maggiori e minori personalità (e dunque una acquisita capacità distintiva entro una vasta materia spesso ancora fluttuante e un autentico impegno realizzato di critico militante), e insieme, nel saggio introduttivo, una piú chiara disposizione storiografica meglio spiegata, intorno al saldo leit-motiv russiano (sul filone realistico moderno, antiletterario e antiarcadico, sulla ripresa verghiana e veristica del romanticismo realistico e manzoniano, sul senso della letteratura veristica come illuminazione della umanità primitiva e autentica e della «selvaggia poesia» delle regioni contro un classicismo aulico e antidemocratico), in una nuova comprensione della validità particolare dello stesso decadentismo nei suoi fermenti moderni ed europei[30], dove lo storico mostra le sue possibilità di allargamento e di duttilità comprensiva pur nell’orientamento non smentito della sua prospettiva fondamentale.

Nel saggio su Abba, si precisano (meglio che nel Di Giacomo) le possibilità piú puntuali del critico nella ricchezza di particolari note caratterizzanti rilevate sul tronco robusto della sua ricostruzione genetica delle Noterelle entro la personalità ed entro la fede dello scrittore risorgimentale sentita come la stessa radice di quella varietà e ricchezza di toni che egli sapeva cosí efficacemente individuare nel celebre libro garibaldino. Critica dunque intera e sensibile e non pura e semplice descrizione contenutistica e storico-culturale, ma, ripeto, solo possibile in un dispiegamento delle qualità russiane di attenzione e puntualità sul saldo filo della sua vita e della sua vocazione di critica centrale ed organica, non per semplice adeguamento ad altre vie e ad altre vocazioni pur attive e feconde in quell’epoca critica. Con alcune delle quali aveva pure consonanze (si pensi alla ricerca donadoniana della vita interiore dei poeti, alle istanze momiglianesche, nel Manzoni, di rapporti vita-poesia e magari a certo integralismo antiletterario dei piú profondi vociani come Slataper e Boine), ma appunto con quelle che si inserivano su di una linea piú di critica tesa alla personalità umano-poetica che non su quella della critica «estetica» analitica o sensibilistica-umanistica. E d’altra parte anche le esperienze qui richiamate si caratterizzavano in forme in genere piú spiritualistiche o postromantiche che il suo storicismo e il suo idealismo concreto e realistico non potevano sentire del tutto assimilabili.

Nel bellissimo libro su Francesco De Sanctis e la cultura napoletana (bellissimo, ma non perciò il suo vero e magari unico capolavoro, come potrebbe sembrare a chi tenda a ridurre l’intero valore del Russo a quello di storia della cultura sic et simpliciter) lo storicismo russiano faceva poi una prova piú direttamente storica nella ricostruzione intera di una cultura in tutte le sue dimensioni letterarie, filosofiche, scientifiche concorrenti entro una prospettiva insieme storica ed attuale. In cui la comprensione e valutazione ricca e sfaccettata di una precisa cultura in movimento – fra la grande eredità vichiana e risorgimentale, l’affermazione di una vigorosa interpretazione originale dell’hegelismo, la lotta fra idealismo e positivismo (a sua volta compreso in ciò che apportava di piú concreto di fronte a generose, ma piú generiche posizioni di vaga religiosità o di umanesimo letterario e retorico e poi seguito nel suo rapido esaurimento di fronte a nuove forme idealistiche fattesi piú concrete e storiche) – e il consolidamento individualizzante di queste correnti in precise e vive personalità risentite nel loro afflato spirituale etico, politico, scientifico, si intrecciavano con l’abbozzo, vivacemente polemico, ma valido nella prospettiva russiana (ciò che piú conta rilevare), di un’intera descrizione della cultura italiana di secondo Ottocento nel centro piú filologico-cruschevole e «piagnonesco» fiorentino, e in quello emiliano-carducciano piú radicale, giacobino e apollineo[31]. E tutto ciò era avvivato da una passione personale dello storico che in quell’opera di ricostruzione di un vivo passato ritrovava la propria stessa eredità idealistico-storicistica di origine meridionale[32], un nuovo rafforzamento alla sua integralità etico-politica-critica e ai suoi motivi polemici e positivi, antivelleitari, antiletterari, antipositivistici e antimetafisici, in nome di un idealismo concreto e operante fuori degli schemi metafisici e della genericità spiritualistica, bisognoso di concretezza tecnica, e insieme nemico del tecnicismo fine a se stesso.

Al centro di quella storia e di questa eredità era posto Francesco De Sanctis, grande critico perché grande uomo morale e vigoroso pensatore ed educatore politico (aspetti che in tal forma vigorosa per primo il Russo metteva in piena luce[33]) in una integralità, organicità, e tensione all’integrale e all’organico, che l’autore sentiva anche come conclusione personale del proprio lavoro e riaffermato principio della sua stessa critica: «la critica è organismo come l’arte, come l’azione politica, come ogni forma di attività che trascende il particolarismo della vita quotidiana»[34].

E se proprio la esemplarità di integralità del critico e della critica nel De Sanctis agiva direttamente a rafforzare la personale concezione russiana della critica, l’esercizio storico diretto e analitico-sintetico di quel libro irrobustiva di concrete esperienze lo storicismo del Russo, mentre questi trovava nello studio della filosofia e della cultura meridionale una nuova ricchezza di stimoli di pensiero che ne articolavano la tensione idealistica in forme piú varie, duttili e corrispondenti a quell’amore del concreto, dell’immanentistica unità di ideale e reale che, dalla loro piú prossima base desanctisiana, sostenevano ancor meglio il nativo idealismo-realismo russiano.

Esperienza dunque fondamentale che, d’altra parte, nel suo carattere di esercizio storico minuto e puntuale, apriva a suo modo la via a quella stessa esigenza di maggiore concretezza culturale e tecnica, di accertamento filologico e di piú approfondita e storica lettura dei testi a cui il Russo tanto piú si sentí spinto da uno sviluppo interno confortato anche in parte dagli stimoli, che, nel poco amato ambiente fiorentino, potevano pur venirgli soprattutto dal contatto col Barbi.

Al solito non «conversione» precipitosa, ma svolgimento complesso e personale, ché con il passaggio a Firenze (singolarmente salutato dalla diagnosi negativa di tendenze passate e recenti della cultura e del temperamento fiorentino nel libro testé ricordato) non si assisteva certo ad un cambiamento delle centrali impostazioni russiane, che riaffermano i loro nuclei vitali e la loro natura combattiva nella nuova spiegata polemica generale sul «Leonardo» e sulla «Nuova Italia» (accanto al Codignola, all’Omodeo, al De Ruggiero, in libera convergenza con «La Critica» del Croce). Polemica in cui il Russo dimostra piú chiaramente il suo coraggio e la sua concretezza inserendosi, finché gli fu possibile senza concessioni e rinunce, entro la difficile situazione creatasi con l’avvento della dittatura e continuando a lungo una impegnatissima lotta per la cultura libera e moderna: difesa dallo snaturamento della propaganda nazionalistica, dai tentativi di utilizzazione del fascismo in chiave controriformistica da parte dei clericali, dal servilismo di tanti accademici o dal concorso evasivo dei letterati puri[35], sostenuta nel suo carattere idealistico-liberale, attivo e storicistico, nella sua autonomia severa e scientifica e pur non evasiva e astrattamente specialistica, aristocratica, ma bisognosa di dialogo, di diffusione e non perciò di bassa volgarizzazione[36], incentrata in quell’elogio della polemica, considerata come strumento di vita culturale e di libertà, che è anche un chiaro elemento antifascista in un’epoca di progressiva chiusura illiberale e autoritaria.

Tutti motivi che sostengono, dal centro della personalità russiana e del suo accordo con la storia piú vera e profonda di quegli anni, anche le sue rinnovate prese di posizione metodologica e critica. E queste, mentre ribadiscono la sua lotta contro ogni forma di estetismo e di sensibilismo frammentistico o di sensualismo fra D’Annunzio e certi elementi meno saldi della prima fase crociana o di sociologismo romantico, trovano un effettivo sviluppo interno e un ampliamento molto importante in nuove e piú chiarite istanze: quali l’esigenza di una lettura storico-filologica dei testi (ed ecco, ripeto, una forma di affiatamento originale almeno con alcuni aspetti e personaggi della cultura fiorentina quale il Barbi[37]) come base di piú sicura storicizzazione, la piú forte funzione della storia della critica come storia del problema critico e forma di inserimento storico del nuovo critico in una storia in divenire, la nuova valorizzazione della cultura e del pensiero nei poeti sia come reazione a interpretazioni romantiche e antistoriche combattute nella loro falsificazione di un tono storico e di una disposizione letteraria (il caso dell’Angiolieri[38] che fu paradigmatico per molta critica successiva), sia, piú profondamente, come instaurazione di una visione dialettica e storicistica della poesia contro le forme piú rigide e schematiche del distinzionismo di poesia e non poesia.

Sono i risultati che scaturiscono da alcuni fondamentali scritti del 1926-1927, con cui il Russo si affermava decisamente maestro di un metodo critico maturo e originale e d’altra parte a suo modo affiatato con esigenze, variamente affioranti in sede non crociana ed entro sviluppi parziali dello stesso pensiero critico del Croce (le posizioni di Poesia popolare e poesia d’arte), che il Russo poteva anche sentire giustamente di aver precorso e certamente (come a noi meglio ora appare) già innalzato in una circolarità di problemi che non è interamente riconducibile a nessuna forma di ortodossia o di puro svolgimento scolastico di un compatto crocianesimo. Ché se la nuova considerazione del poeta colto[39] (con cui il Russo correggeva il suo iniziale vichianesimo mediante una nuova versione di questo nella figura del poeta che riconquista la sua spontaneità su di un’ecatombe di cultura e di storia) poteva ricondursi, in qualche modo e pur anticipandone le aperte affermazioni, a certe posizioni crociane di Poesia popolare e poesia d’arte, e se nel complicato giuoco formulistico del saggio jacoponico[40] permaneva un certo impaccio entro le distinzioni crociane, già qui comunque si presentava anche una valorizzazione nuova della cultura e del pensiero in vivo rapporto con la poesia. Ciò che poi portava il Russo, nel saggio dantesco[41], a felicemente combattere la precisa forma di distinzione crociana fra romanzo teologico e poesia e le sue conseguenze di lettura episodica della Commedia, con la intuizione della genesi unitaria poetica del poema dantesco nel rapporto unitario e dialettico di poesia e poetica affermato anche nel saggio coevo sulla critica letteraria italiana e la poetica del Rinascimento[42]. Intuizione che a me pare essenziale nella trasformazione del clima critico crociano, come meglio vedremo a proposito delle posizioni della Critica letteraria contemporanea, soprattutto a causa del geniale recupero storicistico di un elemento scartato da De Sanctis e Croce (riaffiorante nella coscienza letteraria novecentesca in forme piú tecnicistiche e intellettualistiche-decadenti) e prima delle nuove elaborazioni della nozione di poetica da parte di istanze storicistiche nella mia Poetica del decadentismo del 1936 e da parte di sviluppi fenomenologici del Banfi nell’Anceschi[43].

La discussione col Croce su temi cosí decisivi collocava il Russo al centro delle esigenze critiche piú nuove di quel periodo e lo portava a combattere insieme il vecchio unitarismo materiale, gli aspetti rigidi del distinzionismo crociano (trasformato in viva unità dialettica), lo stesso pesante unitarismo gentiliano (i cui autentici elementi di vitalità e di stimolo sul rapporto pensiero-poesia erano però cosí immessi in un vivo circolo di nuovo metodo critico) e a rafforzare la propria tensione all’organico con una maggiore dinamicità interna e con nuove possibilità di storicizzazione attraverso la cultura, l’arte, il pensiero senza perdere l’istanza individualizzante e il valore primo e creativo della poesia. Per non dire del fatto che quella discussione avviava e sollecitava nella critica dantesca nuove valutazioni del rapporto allegoria-poesia, e del valore poetico di parti considerate dal Croce struttura non poetica.

Perché se al nostro sguardo si stagliano qui, con maggior rilievo, dal corpo intero dell’esperienza russiana le fondamentali lezioni di metodo, esse traggono la loro forza dalla loro nascita entro problemi critici concreti in cui l’intervento di Russo portò sempre contributi di nuova interpretazione e avvio di nuovi problemi e di nuove interpretazioni[44].

Come appunto avviene nei casi ora studiati entro una fase pur dominata dai titoli emblematici delle raccolte, Problemi di metodo critico ed Elogio della polemica, e, con maggiore impegno di interpretazione diretta di opere e autori, di ricambio fra commento e ricostruzione storico-critica, nella lunga attivissima fase che si concluderà con la nuova piú esplicita presa di coscienza (nei volumi della Critica letteraria contemporanea) di quelle ragioni del proprio metodo, che si vennero ulteriormente espandendo e chiarendo appunto nella collaborazione dell’esercizio critico e storico concreto con intermedii sintetici ripensamenti e confronti con la situazione critica generale: quali sono la comunicazione di Budapest del 1931, Tendenze metodologiche della critica contemporanea, che decisamente innalzava l’insegna di uno «storicismo assoluto»[45] sostenuto da una piú chiarita concezione del rapporto fra critica e arte e della stessa nozione della poesia alla luce delle conquistate posizioni di poetica e di «ingenuità di conquista» della poesia[46], e i saggi del ’35 su Carducci critico e sul D’Ancona, che (in accordo con i capitoli aggiunti nel ’35-36 alle comunicazioni di Budapest), tanto piú riassorbono nel metodo interpretativo russiano l’esigenza di una seria considerazione dell’ars e della filologia[47] come momenti concretamente necessari di una «lettura storica» cosí piú irrobustita nella sua tenace volontà di comprensione del passato e del passato individualizzato, alla luce di interessi vivi e attuali, ma non in una trascrizione prevaricante di moderne posizioni di filosofia e di storia moderna[48].

Nascevano cosí il commento al Principe e i Prolegomeni a Machiavelli (1931), in cui il ricambio fra interpretazione organica del pensiero-arte, incentrata nella personalità storica del Machiavelli, e commento storico-linguistico permise al Russo una ricostruzione storico-critica appassionata e lucida, moderna e attenta all’alterità del passato[49], capace, in un autore cosí propizio (le stesse scelte dei suoi argomenti sono ispirate alla linea dei suoi interessi per scrittori definiti, costruiti moralmente e intellettualmente, dotati piú di «forza» che di «sforzo» e sempre «poeti-uomini» e uomini storici, centrali nella storia di un’epoca e dello stesso spirito umano[50]), di render ragione – dalla formula dell’artista-eroe della tecnica politica alle analisi concrete delle opere – del nesso unitario di storia, pensiero e arte nell’individuazione della «umanità-forma», nonché dei vari elementi del linguaggio aulico e popolaresco e dei toni di lucidità tecnica e di oratoria poetica e appassionata della prosa machiavellica[51].

E poi, sull’appoggio d’avvio del commento alle Liriche e tragedie, del ’33, e nella collaborazione fra un commento dei Promessi Sposi (1935) espanso nella ricostruzione dei personaggi del romanzo (Personaggi dei «Promessi Sposi», edito nel 1945, ma realizzato nel ’34-35 come primo corso all’Università di Pisa[52]) e il saggio introduttivo sintetico a quel commento, il Russo arricchiva il problema critico di una grande opera d’arte con il tenace impiego della sua sensibilità storica che gli permetteva di rilevare la mentalità storica e moderna del Manzoni nella costruzione del suo ideale etico-religioso entro una concreta immagine storico-polemica della società secentesca, e con l’approfondimento metodologico del rapporto fecondo fra poesia e struttura al di là della soluzione crociana, in una ripresa nuova della vecchia discussione sulla poesia dantesca. Anche qui la drastica proposta crociana del capolavoro di una oratoria edificante (che pure aveva portato una nuova tensione nel problema critico manzoniano, irrequieto e tormentoso fuori della ferma fede del Momigliano nel «luminoso poeta») veniva oltrepassata nell’affermazione di una radice unitaria poetica anche se, solo piú tardi, nel saggio del ’41 su Manzoni poëta an orator, il Russo piú decisamente confermava l’intera poesia dei Promessi Sposi, attraverso un processo di svolgimento e di migliore unificazione di una articolazione composita (ma pur sempre dialettica e con radice unitaria) che può dimostrare la fecondità di un metodo piú irrequieto e pur coerente nei suoi sviluppi di fronte a certe «conversioni» e ribaltamenti assoluti di un distinzionismo categorico come quello, in questo caso manzoniano, del Croce all’estremo limite della sua vita.

Del Croce il Russo sentiva vivamente la spinta di quegli anni ad una maggiore articolazione della realtà letteraria e poetica (e sentiva insieme di collaborarvi con le sue proprie posizioni, come era avvenuto nel caso di Poesia popolare e poesia d’arte), ma in realtà ancora una volta egli si trovava su di un’onda critica concretamente piú lunga e si avvantaggiava (anche quando piú si adeguava a piú precisi termini della problematica crociana) di una visione piú unitaria e dialettica della personalità poetica e delle sue espressioni nel suo svolgimento e nella sua storicità: donde il fortissimo sentimento russiano della storica modernità della religiosità manzoniana affiatata con la versione illuministico-romantica del cristianesimo, con il distacco dalla tradizione classicistica e «letteraria», con quell’elemento di realismo che, pur con tutte le distinzioni cresciute rispetto allo stesso schema giovanile dei Narratori, lo ricollegava a certi vividi accenni manzoniani del Verga.

L’istanza individualizzante e storicizzante, risolta soprattutto nella interpretazione storica integrale delle personalità poetiche, permaneva centrale anche in questa fase della critica del Russo, ed essa lo spingeva tanto piú a risalire al saggio dal commento, dal piú vivo affiatamento con l’individuazione poetica nel testo. E cosí nascono i saggi alfieriani, foscoliani, leopardiani, boccacceschi dell’attivissimo periodo 1936-1943, quando l’estrema applicazione al lavoro significò per Russo anche una rivincita sulla realtà dolorosa degli estremi sforzi della dittatura e una fede attiva nel valore della libera cultura italiana e della sua grande tradizione, tanto piú viva quanto piú riscoperta nei suoi storici problemi e nelle sue grandi personalità umane e poetiche. Sicché la genesi di questa grande massa di lavoro critico è anzitutto pur sempre una genesi morale e latamente politica che non soverchiava ed anzi rafforzava le esigenze di serietà, di preparazione storica e filologico-linguistica, e sollecitava la piú aperta espressione di quella forma di nuovo sociologismo lirico-simbolico che, alimentato da una nuova revisione e utilizzazione originale del gentilianesimo, trovava concreto stimolo nella stessa materia di studio costituita soprattutto dal gruppo compatto di Alfieri, Foscolo e Leopardi, poeti-uomini e poeti-maestri della grande tradizione moderna italiana a cui già il Russo aveva assicurato il Manzoni ed il Verga (secondo lo schema ricordato già nell’abbozzo di programma del Tramonto del letterato). Poeti-uomini, secondo il leit-motiv centrale della critica russiana, ma con il potenziamento della cresciuta integrale considerazione della loro «umanità-forma» nella concretezza della loro ars dictandi, della loro cultura, della loro simbolicità storica.

In quest’ultima direzione, l’Alfieri (studiato fra il commento della Vita e il saggio inerente del 1935-1936, il saggio Lettura lirica del teatro alfieriano del 1940 e il commento e l’introduzione al Del principe e delle lettere del 1943[53]) prende un eccezionale spicco nella prospettiva storica del Russo come iniziatore, e maestro, di una nuova sensibilità, di una nuova problematica, di una nuova tradizione letteraria con la sua rivoluzionaria concezione del letterato nella sua assoluta indipendenza dal potere politico, con la sua «virginea» e «stellare» libertà, con la sua assoluta liricità che (seppure con una svalutazione assai discutibile della sua autentica dimensione teatrale) piú fortemente lo collegava alla lirica di Foscolo e di Leopardi. Mentre nel saggio sulla Vita la valutazione degli alfierismi come espressione linguistica della personalità rinnovatrice alfieriana implicava la considerazione effettiva del nuovo problema della lingua dei poeti ora piú fortemente affrontato dal Russo, e il rilievo della ricchezza di sensibilità moderna delle pagine alfieriane sull’infanzia, in concorrenza con posizioni rousseauiane e quasi in lontano anticipo di modi proustiani, apriva una nuova direzione di valutazione della modernità alfieriana e dei suoi raccordi con quegli aspetti della sensibilità romantica e postromantica già considerati dal Russo nel saggio e commento delle Confessioni nieviane del ’34[54]. Mentre, con il tipico modo di svolgimento critico e personale del Russo, la interpretazione dell’Alfieri riconfluiva in un potenziamento estremo e polemico della sua stessa coscienza del proprio mito del letterato antiletterato che rivendica la sua libertà interiore dalla contaminazione di una realtà opprimente e mortificante: il mito del «no-man» che, pur nella sua estrema proiezione ben comprensibile in questo periodo di resistenza antifascista, è pure componente genuina della posizione del Russo nella vita e nella letteratura e colora di un accento doloroso e profondo il suo stesso sforzo di intervenire e di affiatarsi con la realtà e la storia, ma mai in forme conformistiche e «gregali».

Momento di estremo interesse, profondità e coerenza in cui all’interpretazione alfieriana risponde e si lega intimamente quella foscoliana (nel saggio e nel commento del 1940) che accertava, nello svolgimento della personalità del Foscolo, una appassionata tensione a colmare l’estrema divaricazione fra ideale e reale lasciata aperta dall’Alfieri e un’assidua ispirazione etico-politica che, mentre si esaltava in poesia originalissima e mitica (non particolaristicamente pragmatica e illustrativa di pure posizioni morali e politiche) e attingeva una sua universalità e religiosità nei Sepolcri, si ripresentava chiaramente anche nelle Grazie, in cui la ricerca di un iperuranio poetico significava una forma profonda di protesta e di opposizione alla triste realtà politica della dittatura e dell’imperialismo napoleonico, e cosí concretamente saldava una possibile frattura eccessiva tra Sepolcri e Grazie, e portava una significativa battuta di arresto in quella che era divenuta in parte anche una infatuazione di moda per il poema incompiuto in chiave di poesia frammentaria, «pura». Riproponendo cosí la vecchia battaglia russiana antiframmentistica e anti-poesia «pura» in una forma che poteva, a sua volta, anche permettere una singolare comprensione di certe posizioni di «letteratura» e di poesia ermetica contemporanea come rifiuto della realtà del tempo fascista, purché (e questo ben si capisce nella preferenza di Russo per Montale fra i poeti contemporanei) non semplice evasione edonistica e formalistica, ma implicitamente tesa da una sua particolare eticità profonda ora affermando come propria di ogni vera poesia e come sua piú particolare configurazione della storicità propria di ogni poesia.

Mentre nel commento e nel saggio sulla carriera poetica di Giacomo Leopardi (1943-1944) la fedeltà generale all’immagine desanctisiana e crociana del poeta dell’idillio non escludeva l’accentuazione di una disposizione «agonistica» e «antidispotica» (rilevata come vocazione della mente leopardiana al di là dei diversi contenuti[55] fin dall’orazione antimurattiana del ’15), che accertava una particolare ascendenza alfieriana storicamente importante e che (seppure non sfruttata interamente ai fini di una piú dialettica precisazione della posizione del Leopardi e dei possibili svolgimenti della sua ultima poesia[56]) arricchiva la stessa interpretazione idillica[57] con vive intuizioni (fra originali recuperi di elementi desanctisiani, vossleriani e gentiliani) della complessità della poesia leopardiana[58], della sua «religiosità» che comunque contrasta con certo idillismo troppo classicistico e riporta insieme alla preoccupazione russiana, piú assillante in questo periodo («senza cielo non nasce mai poesia»[59]), di assicurare alla poesia una sua severità profonda e liricamente simbolica di una storicità non cronachistica e puramente documentaria.

Nel commento diretto dei Canti si manifesta poi un’assidua attenzione al linguaggio del poeta e ai rapporti fra la parola nuova e la storia della lingua letteraria, in relazione ad un interesse del critico che si era venuto affermando in una consonanza con nuovi interessi generali in formazione e che, pur raccordato con l’esigenza mai smentita di una interpretazione centrale della personalità poetica e storica e con l’interesse già concretamente manifestato per la cultura artistica dei poeti, si era venuto svolgendo con maggiore forza in questi anni del suo lavoro fra i commenti citati, il saggio sulla lingua del Verga, del ’41, e il commento antologico del Decameron del ’39. Di cui l’autore sottolineava la novità rispetto agli altri suoi commenti precedenti in quanto commento linguistico, affrettandosi però a chiarire che tale suo piú forte interesse non era una «conversione», dato che la sua interpretazione linguistica non voleva avere «un carattere rettorico e strettamente lessicale, ma un carattere estetico e storico: le note linguistiche sono preparazione all’intelligenza dell’arte del Boccaccio»[60]. Programma di commento storico-linguistico che sostanzialmente si realizzava come un modo di arricchimento della linea centrale del Russo[61] al livello di esigenze piú nuovamente consolidatesi, entro una volontà di assimilazione e di ampliamento storico e tecnico della sua critica in questo periodo di feconda espansione che piú naturalmente chiedeva alla sua metodologia funzionale uno sforzo effettivo di moltiplicazione dei propri strumenti interpretativi e dei propri modi di accostamento alla poesia.

E fra questi va calcolato, a questo punto, anche quel modulo di «postilla critica», intermedio tra il commento e il saggio a ritratto e disegno storico, che piú tardi il Russo, presentando il volume delle Letture critiche del «Decameron», nel 1956, giustificherà come la forma sua di una critica «vera e propria che favorisce una lettura puntuale dei testi» (e dunque proseguimento e consolidamento del lavoro di commento a piè di pagina) accanto al lavoro dello storico («storia quella che traccia ritratti e disegni storici»[62]). Con una distinzione che può suscitare dubbi e discussioni sulla precisa qualifica distintiva di «storia» e «critica vera e propria» dei due momenti accennati entro la piú generale ispirazione integrale dello storico-critico, ma che comunque ben sottolinea, nella fase che siamo venuti ricostruendo, e nel momento particolare rappresentato dall’interpretazione boccaccesca, l’ansia dell’autore di controbilanciare la velocità sintetica e formulistica e la tensione alla definizione della realtà personale-storica dell’opera d’arte entro una storia di nuovo sociologismo lirico-simbolico, con la ricchezza particolareggiata della lettura piú puntuale dei testi. Anche se questa stessa si profila sempre nettamente in una direzione estetico-storica e organica e mai in una valutazione del particolare in sé e per sé. Ché proprio queste «postille» e poi «letture» critiche del Decameron si rifanno assiduamente a centri di interpretazione storico-critica della posizione del Boccaccio fino all’identificazione del nucleo lirico-simbolico di una nuova religiosità che valorizza nuovamente i temi dell’intelligenza e della cortesia, dell’eroismo erotico-cavalleresco, della giovanile e sana sensualità, anche nei loro rapporti con temi e aspetti medievali, in una nuova prospettiva di civiltà mondana in cui il Boccaccio, porta insieme la sua spontaneità di poeta e la sua serietà di uomo e di uomo storico, l’ispirazione «totale e non meramente estetica» dell’arte sua[63].

Né sfuggirà il fatto che in questo periodo la fedeltà alla storia monografica non escludeva realmente una implicita disposizione a una storia letteraria, quale risultava, mercé la valorizzazione della poetica e della «politicità trascendentale», nel vivo rapporto di problemi artistici e di posizioni storiche e spirituali che venivano a collegare Alfieri, Foscolo, Leopardi, Manzoni. Mentre piú esplicitamente, in quello stesso giro di anni, le qualità storiografiche del Russo si esercitavano nelle vigorose delineazioni di quadri storico-letterari premessi ai volumi antologici del manuale per i licei, I classici italiani, con il quale il Russo, direttamente e con la collaborazione di scolari ed amici, proseguiva anche quella sua attività di educatore delle giovani generazioni, che è tutt’altro che trascurabile nel rilievo della sua presenza intera nella cultura italiana e del rapporto vitale fra le sue posizioni di studioso ad altissimo livello e il sentito dovere di collaboratore della formazione storico-critica dei piú vasti settori della gioventú italiana. Quadri a cui sono da aggiungere, sempre fra il ’38 e il ’40, il capitolo sulla letteratura religiosa del Duecento e la conferenza a Budapest sulla letteratura italiana del Settecento, e con i quali il Russo impiantava in parte la trama di quella storia della letteratura italiana che sarebbe stata l’impegno e l’assillo maggiore dei suoi ultimi anni, la mèta solo parzialmente raggiunta della sua sempre piú maturata vocazione di completo storiografo.

E quei quadri e saggi storico-letterari, folti di indicazioni e di problemi originali, coerenti alle interne esigenze dello studioso e ben affiatati con una conoscenza diretta di problemi storici e filosofici, al di là dell’intenzione storiografica pure implicita nella stessa insegna di «ritratti e disegni storici» che venne inaugurata pure in quegli anni, approfondivano, nella irrequieta densità delle prospettive storicistiche russiane, quel bisogno di periodizzazione, di collegamento storico generale delle singole personalità poetiche (già di per sé interpretate in un complesso convergere in esse di nessi e di riflessi storici), che veniva piú distinguendo la sua disposizione ad una forma di intera storia letteraria dalla forma piú rigorosamente monografica di tipo crociano.

Questa lunga e attivissima fase di lavoro critico, fondamentale nello svolgimento e nelle offerte concrete della critica del Russo, trova il suo esplicito corrispettivo di dichiarazione metodologica nell’opera del ’42, La critica letteraria contemporanea.

Quest’opera, in cui lo scrittore sistemò vecchi saggi di discussione critica, e ne aggiunse molti nuovi, entro un’unica prospettiva non di «panorama» di storia della critica, ma di storia vissuta e di «breviario» o «carta di lavoro di un critico militante»[64], vale certo anche per la ricchezza di definizioni e di giudizi sui critici considerati prevalentemente nelle loro implicite o esplicite tendenze metodologiche, ma soprattutto si impone alla nostra attenzione come una nuova piú potente presa di coscienza da parte del Russo della propria metodologia, che viene sollecitata a manifestarsi in forma di viva esperienza dialettica dal continuo intreccio fra giudizio e proposta personale, fra esposizione di problemi e proprio intervento di adesione e di polemica.

Ne risulta un’esuberante nuova espressione dell’intera personalità russiana matura, con il suo ideale di partecipazione del critico e dello storico ai problemi vivi del proprio tempo e di quelli del passato (perché gli «spettatori della storia» avvertono i particolari, ma non «quello che è il segreto di una questione e della prospettiva dell’insieme»[65], e perdono la possibilità di «cogliere il simbolo storico di un’opera»[66]), con la sua fiducia nel lavoro e nella realizzazione effettiva («lavoro che è poi sinonimo di larghezza e di vivacità di interessi», ché «i grandi ingegni abulici non sono mai esistiti se non nella fantasia narcisia degli stessi interessati e nella ipocrita pietà degli amici»[67]), con la sua esigenza di assoluta distinzione fra un cieco vitalismo e la «classicità» di una vita realizzata in valori posseduti e definiti: «tanto affrettarsi (dice per il Tilgher), tanto anelare, tante pazze illusioni di accesa fantasia, tanto farneticare di filosofemi e di superamenti, per poi inabissarsi in quella fetente cloaca, per dirlo alfierianamente, che è la Vita, tutte le volte che questa è considerata al di qua della fermezza stilistica della poesia o della fermezza concettuale della filosofia o della conclusiva nettezza ed efficacia dell’azione»[68].

Posizioni generali cui corrispondono, in sede piú strettamente critica, la rinnovata opposizione all’adeguazione dell’opera d’arte sia con il semplice impressionismo (pur accolto funzionalmente come «formazione iniziale, esperienza preliminare di ogni critico», e senza di cui «si va diritto non alla critica filosofica, ma alla critica logicizzante, astratta, generica, anestetica in cui tu non senti alcun odore della poesia giudicata»[69]) sia con l’aggiunta poeteggiante, metaforeggiante e musicalistica[70], sia con l’accostamento privo di ogni affiatamento con la storia del problema critico trattato[71], sia con l’opposta considerazione della poesia «pura» e «fuori della storia» o in questa materialmente perduta e dissolta, dato che la poesia «è figlia del tempo, ma perché essa innanzi tutto è genitrice di quel suo tempo... altrimenti come semplice figlia o voce del tempo, essa diventa il documento, la testimonianza di un progresso ideologico, ed essa può essere brutalmente agganciata allo sviluppo di questa o quella filosofia contemporanea»[72].

Non sarà il caso certo di discutere qui la esaurienza e precisione dei giudizi su molti critici che una prospettiva piú distaccata e allargata può riconsiderare con ben diversa valutazione della loro presenza storica e degli elementi da loro offerti anche a quella parte di una nuova generazione critica che pure nel Russo trovò uno dei suoi punti di appoggio piú sicuri e che può riconoscere soprattutto in lui il proprio avvio storicistico. Ciò che qui importa è segnare fortemente l’importanza di questo libro nello sviluppo e nella centrale maturazione della metodologia russiana e nella sua presenza attiva nella discussione critica di quegli anni ormai post-crociani, quando il critico trovò la forza di raccogliere tutta la propria esperienza di lavoro concreto e di discussione, e di proiettarla in avanti, acuita in alcune proposte centrali. Con cui egli tendeva non solo a superare le forme critiche per lui corrispettive di poetiche e atteggiamenti morali e culturali o addirittura ormai arretrati (e combattuti già al livello del Tramonto del letterato) o ripresentanti per lui nuovi aspetti di letteratura pura, di confusione fra evasione e impegno solo esistenzialistico[73], tanto piú assillanti per lui nella crisi etico-politica dell’ultimo periodo fascista e nella prospettiva di nuove aperture politiche e culturali, ma anche a vincere i limiti di irrigidimento dello stesso storicismo idealistico fatto avanzare il piú possibile con un’interna dialettizzazione e collaborazione degli elementi piú storicistici del Croce e del Gentile, e portato, sempre piú, a farsi concreto strumento storico piú duttile e operativo. Ché lo storicismo prende in lui il carattere di «un problema sempre aperto, perché è tutta l’esperienza in fieri»[74], e l’idealismo è sentito soprattutto come «filosofia della storia», «filosofia a cui collaborano tutti gli storici di buona volontà e di buona lena»[75].

L’accento storicistico batte sempre piú forte e perciò la discussione piú interessante è proprio quella che il Russo svolge in direzione piú chiaramente storicistica, con quelli che egli considerava i suoi piú vicini maestri: e con ciò il Russo difendeva anche il suo concreto inserimento in una linea di cultura accettata sostanzialmente, anche se effettivamente sopravanzata in quello stesso rilievo in essa di elementi storicistici piú precisi e a lui piú congeniali che non sarebbe stato possibile a un semplice scolaro privo di un suo proprio punto di vista e di una piú larga prospettiva storica recuperante a sua volta elementi del fondamentale antefatto storicistico desanctisiano, che meno erano passati nelle singole posizioni del Gentile e del Croce.

Entro quei termini di discussione con quelli che rimangono del resto i due maggiori filosofi italiani del primo Novecento, il Russo, che con i suoi interventi dal 1920 in poi poteva vantarsi di aver collaborato allo stesso svolgimento della metodologia crociana in senso storicistico (e forse, sia detto una volta per tutte, egli finí a volte, specie in questo periodo, per qualificarla generalmente piú storicistica di quanto non fosse), sempre meglio ora apriva una via che andava al di là di quanto il Gentile poteva offrire di stimoli anticrociani e postcrociani e di quanto lo stesso Croce poteva raggiungere conclusivamente anche nei suoi sviluppi piú interessanti[76].

Una via appoggiata soprattutto (nei presupposti russiani della umanità-forma e della poesia come riconquista di spontaneità su di un’ecatombe di cultura, di pensiero e di storia) sul piú deciso rilancio della nozione di poetica e del suo storicismo configurato come nuovo sociologismo lirico-simbolico, con cui egli imprimeva una spinta piú unitaria e vigorosa al suo sentimento dialettico della personalità poetica e del suo rapporto e significato storico. E molte pagine andrebbero citate a verificare la complementarità delle due proposte e la loro efficacia propulsiva in una direzione che è tuttora un problema aperto di riconquista di una storia letteraria che non perda mai l’autentico delle personalità concrete e nelle personalità la realtà della loro intera storicità-umanità e della loro consistenza poetica.

Distinta energicamente dalla svalutazione desanctisiana-crociana come puro «mondo intenzionale»[77] e da un’accezione intellettualistica e puramente tecnico-letteraria[78], la poetica veniva ora affermata centralmente non come una «estetica... e nemmeno una semplice stilistica platonica che lo scrittore tenga presente per l’esercizio della sua arte, la sua ars dictandi, il globo delle sue idee estetiche, ma il mondo stesso e di teorie estetiche e di miti passionali, morali, politici che costituiscono l’humus su cui nasce in concreto la sua poesia, e che si parte dalla sua poesia». E attraverso di essa il Russo ritrovava «infiniti raccordi con la generale storia della letteratura», precisando che «sta al fiuto, alla discrezione e alla sobrietà dello storico di accennare a quelli che sono soltanto necessari, comandati dai testi»[79].

Insieme, in quello stesso gruppo di pagine, nate dalla discussione sul Gentile, sul rapporto Gentile-Croce e sulla presenza attiva della storiografia desanctisiana, si affermava l’esigenza (già concretamente esercitata dal critico e non dunque proposta metodologica astratta) di un nuovo storicismo critico basato sulla relazione dialettica fra poesia e poetica, di un sociologismo «post-crociano» distinto dal sociologismo solo filosoficamente simbolico del Gentile, di un nuovo sociologismo come «storicismo lirico-simbolico»[80] che, implicando una sintesi rinnovatrice degli elementi piú vivi del gentilianesimo e del crocianesimo, rappresentava effettivamente nella sua globalità un’apertura nuova, atta a sostenere non solo l’esercizio concreto russiano, ma una direzione storico-critica capace di prospettive e di affiatamenti diversi in campo postcrociano e non crociano al di là di quanto il Russo stesso abbia potuto fare nella circolarità delle sue istanze, della sua cultura e nella precisa e personale configurazione di quella formula.

Ché, senza accettare certe accuse di pura reincarnazione gentiliana venute poi da parte di crociani ortodossi, si potrà certo osservare che, se il carattere lirico-simbolico del suo storicismo salvaguardava la duplice istanza dell’individualità e della storicità e combatteva il pericolo di perdere il senso di una storia a parte subjecti e di cadere in forme storiche deterministiche, esso importava in quella precisa formulazione qualche rischio di una «simbolicità» troppo generale e sommaria, di una minore concreta considerazione dei piú minuti e precisi elementi, nello svolgimento della personalità e della storia letteraria, di storicizzazione artistica, culturale, civile con dietro certi limiti propri di una concezione generale idealistica.

Ma nell’ambito di una cultura, che del resto egli tanto aveva arricchito con le sue native istanze realistiche e con la complessità di una critica in cui rifluivano il suo fondamentale senso storico e gli stessi suoi impegni morali e politici (che lo portavano già allora a superare il corrispettivo puramente liberale dell’idealismo crociano), ciò che poteva essere un limite del suo storicismo nel senso sopra indicato pur corrispondeva, come dicevo, all’esigenza ben sua di combattere il pericolo di appiattire la poesia (che fu per lui anche una forma di fede profonda nell’autentico e nell’inventivo, nell’originale dell’uomo) in una pura e semplice rappresentatività documentaria e in continuità di contenuti e di temi, e quello di isolarla e impoverirla in una liricità astorica e priva di una profonda forza storica-umana.

La situazione nuova del dopoguerra, fra la sollecitazione dello spirito della resistenza e delle luminose speranze del ’45, i cupi riflessi delle rovine e dei lutti della guerra e il precoce affiorare delle resistenze conservatrici e del nuovo dominio clericale, agí come una nuova potente scossa stimolatrice sull’intera personalità del Russo. Il quale negli impegni universitari dell’insegnamento, sempre piú sentito nel suo intero valore scientifico e civile, della direzione dell’Università e della Scuola Normale Superiore di Pisa (che governò con nuovo spirito democratico e con attivissimo fervore fino al suo allontanamento ad opera del Gonella per ragioni chiaramente faziose) e nel nuovo impegno di direttore di «Belfagor» cui dette una chiara prospettiva di storicismo aperto e di lotta per una cultura libera e democratica, venne rivelando una rinnovata capacità di ricambio fecondo fra la sua attività di critico e di storiografo e la sua vocazione e missione di polemista etico-politico geniale e vigoroso, dotato di una piú ricca gamma di toni ironici, sarcastici, sdegnati e addolorati. Che riconfermano e approfondiscono le sue genuine qualità di moralista e di scrittore capace di cogliere temi di fondo e, spesso anche piú efficacemente, segni minori ma non meno sintomatici della meschina cronaca di un «ateismo» utilitario sfacciato e di un nuovo ruere in servitium, innalzati dalla sua genialità inventiva e dal suo gusto del particolare di costume a simboli concreti di una vicenda ripugnante di conformismo, di incultura, di disprezzo, da parte della nuova classe dirigente clericale, della grande tradizione risorgimentale e resistenziale e delle ragioni ardenti di una spinta democratica dal profondo di un mondo sociale ignorato e tradito per secoli di cui egli aveva già còlto giovanissimo, come critico, l’umanità e la schiettezza nella intuizione sociale del Verga.

E del Verga ora piú chiaramente affermava il carattere di poeta della «povera gente», di preparatore poetico di un nuovo assetto sociale[81], ricollegando ancora a lui la sua poetica del «tramonto del letterato» alla luce della quale si rinnovava la sua speranza in una nuova letteratura realistica, ma non documentaria, fuori dei limiti tanto da lui combattuti del calligrafismo e dell’ermetismo, e nuovamente, anche se saltuariamente, da lui studiata con un rinnovato interesse di critico dei contemporanei[82].

Mentre piú assiduamente e impegnativamente la sua attività di critico e storico si volgeva con maggiore vigore a sviluppare le posizioni implicite nella sua nozione di «politicità trascendentale» dei poeti in una piú forte accentuazione della sua attenzione all’aspetto etico-politico degli scrittori dell’Ottocento e del primo Novecento con una serie di saggi (da Alfieri e l’uomo nuovo europeo, ai saggi foscoliani sull’Ortis, sulla storiografia politica del Foscolo, al discorso sui Poeti-numi del 1848, ai saggi sulla critica machiavellica e dantesca del Cuoco, del Foscolo, del Mazzini, fino a certe note illuminanti sulla poetica del Pascoli e del Fogazzaro indagata nel suo fondo etico-politico), che vennero, nel 1960, significativamente raccolti in un volume, uno dei piú belli e compatti del Russo, sotto il titolo di quel saggio, Il tramonto del letterato, che ancora una volta il critico sentiva il bisogno di ripubblicare a segnare la propria continuità piú profonda, entro la ricchezza e complessità delle sue varie fasi, intorno a quella che era stata sin dal ’19-’20 la sua poetica, la sua personale immagine del letterato moderno, la sua essenziale prospettiva di critica e di storiografia. E che ora si ripresentava con nuovo vigore nello sviluppo della sua presenza nella cultura e nella critica del dopoguerra, rinforzata nelle sue ragioni storiche ed etico-politiche dal suo piú diretto impegno civile (il letterato nuovo viveva piú che mai nella sua personale partecipazione, di attore e non spettatore, alla vita della cultura e della civiltà contemporanea), dal suo sentimento di collaborare sempre in prima persona e fuori di ogni forma «gregale» – e quindi con un costante margine di libertà mai ripudiato – ad una opposizione attiva e progressiva in cui il «no-man» di tipo alfieriano acquistava una piú positiva componente di intervento nella trasformazione di una società ingiusta e conservatrice, e in cui lo stesso sviluppo della sua posizione politica, da un liberalismo già aperto a istanze democratiche e sociali[83] a piú precise prospettive democratiche e socialiste, gli permetteva di chiarire a se stesso l’essenziale tensione democratica di tutta la sua attività e della sua stessa critica e storiografia letteraria[84]. Realizzando cosí anche un significativo accordo con gli svolgimenti di un settore della cultura storicistica-idealistica, a cui era stato sempre piú vicino (Omodeo, De Ruggiero, per citare alcuni), verso uno storicismo piú concreto e risentendo l’incoraggiamento di una propria originale consonanza con quella che era stata l’esperienza maggiore e meno dogmatica del marxismo italiano fra le due guerre: quell’esperienza gramsciana di cui egli faceva gioiosamente la «scoperta» in un’importante conferenza del 1947, rallegrandosi poi che il Gramsci stesso avesse, dal carcere, ben rilevato in lui e nella sua critica una tendenza democratica e quella dominante continuità desanctisiana[85] che, come vedremo, sarà da lui stesso tanto piú fortemente riconosciuta ed esaltata come all’origine della sua critica e storiografia e come prima ragione delle sue stesse resistenze all’ortodossia crociana e ai limiti di questa rispetto alla propria visione storicistica, dialettica-unitaria, della poesia e della storia letteraria.

Ma, pur con sbalzi di diversa accentuazione, che sono corrispettivo della stessa feconda irrequietezza del Russo e delle effettive difficoltà di nuova sistemazione intera delle sue complesse e mosse esigenze critiche e metodologiche, la piú forte tendenza del suo storicismo a rinnovarsi in forme sempre piú storiche-concrete non implicò, al solito, conversioni radicali e l’abbandono di istanze fondamentali che avevano avuto modo di manifestarsi molto chiaramente in quelle stesse formule del sociologismo lirico-simbolico, della poetica, della politicità «trascendentale»; i cui aspetti piú compendiosi e rapsodici egli pur tendeva ora a ridurre concretamente in uno sforzo maggiore di interpretazione storica piú particolareggiata (e con un’insistenza maggiore sui nessi espliciti e piú circostanziati fra poeta e storia e fra storia letteraria e storia civile, sociale, politica), ma di cui non volle mai rinnegare le ragioni piú interne.

Infatti, se la piú forte spinta storicistica concreta è ben rilevabile in tutto l’arco assai lungo e di varia intensità dell’attività russiana di quest’ultimo quindicennio e se il distacco sempre maggiore dal crocianesimo è avvertibile nel suo esercizio critico e nelle piú sparse e meno circolari dichiarazioni metodologiche (si pensi almeno alle sue autorecensioni in occasione di ristampe dei suoi vecchi libri, tutte tese a rilevare soprattutto i dissensi del suo storicismo dallo storicismo piú debole del Croce[86] fino a decise dichiarazioni sui rischi crociani di un ritorno alla critica delle bellezze e dei difetti e sul limite del generale distinzionismo crociano avvertito nuovamente anche nella separazione fra poesia e letteratura[87]), la sua stessa polemica col Croce non è mai priva del riconoscimento dell’importanza della lezione del Croce e del Gentile[88], fino all’ultimo ricordati fra i suoi maestri anche se posposti piú decisamente al magistero desanctisiano. E non solo su questo punto egli si trovò a distinguersi nettamente dalla tendenza marxistica ad una esclusione del Croce dalla linea vitale desanctisiana, ma sempre tese a distinguere il proprio storicismo aperto e la propria preoccupazione assillante di non perdere mai il valore della poesia e la comprensione storicistica dell’originalità del passato dalle precise forme della nuova critica marxistica. La quale, prima aggredita violentemente nelle sue prime manifestazioni come gabellamento di novità di tendenze storicistiche già vive dal De Sanctis a lui stesso e come interpretazione «contenutistica» della stessa politicità dei poeti[89], poi ammonita piú blandamente di correre il rischio di prevaricare la realtà dei testi (rischio pur riconosciuto come inerente ad ogni tendenza critica nuova[90]), rimase da lui sostanzialmente limitata a «velleità» fino alle ultimissime pagine del Compendio storico della letteratura italiana; in cui però riconosceva, piú di quanto non avesse fatto precedentemente[91], il carattere di solo critico «marxista» al Gramsci, rilevando l’importanza della lettura delle sue opere postume «che hanno arricchito la cultura dei giovani, e li hanno liberati da quel conformismo o crociano o gentiliano che essi avevano avuto per il passato»[92], meno calcolando, in quel preciso contesto, l’efficacia che in quel senso aveva avuto, già in periodo crociano, anche la sua personale versione storicistica.

Da queste ed altre dichiarazioni può ricavarsi un elemento di quell’abbozzo di una lotta su piú fronti, che, se meno profonda ed efficace per la minore profonda dialettizzazione della propria posizione con quella della critica e metodologia piú recente, si presenta effettivamente entro l’attività dell’ultimo Russo: contro il crocianesimo ortodosso, contro le vecchie forme impressionistiche, psicologistiche, sensibilistiche, contro la critica stilistica e la sua pretesa insieme di novità, di autonomia, di autosufficienza e capacità di esaurienza del fatto poetico[93] (e contro di essa la polemica e la preclusione era tanto piú dura e addirittura impaziente e certo meno dialetticamente feconda di quei possibili tentativi di riassorbimento parziale e personale che si erano in lui a lor modo manifestati nel caso del problema linguistico negli anni dell’immediato anteguerra[94]), ma anche, ripeto, rispetto alla critica marxistica cosí come egli la individuava e se la rappresentava nella sua generale impostazione e autonoma sufficienza, pur nella chiara maggiore vicinanza di elementi storici[95].

D’altra parte anche nella introduzione del ’60 al Tramonto del letterato il Russo si preoccupava di presentare i saggi in esso contenuti come un aspetto, piú rilevato in senso politico, della intera ricostruzione storico-letteraria dell’Otto-Novecento cui intendeva piú tardi procedere, e confermava insieme che anche qui egli era rimasto sostanzialmente fedele al suo canone di «politicità trascendentale»[96], a quella sua idea della «patria celeste» dei poeti in cui configurava ancora la sua esigenza di far valere, nella massima tensione storica, il valore nuovo e originale della poesia, magari ancor meglio precisando il centro della sua preoccupazione storicistica non deterministica quando affermava che il «poeta vero costituisce sempre una sintesi a priori col tempo storico in cui si è trovato a vivere»[97].

Mentre nell’appassionato impegno di editore e di interprete storico dell’opera desanctisiana (che fu uno dei momenti piú importanti e significativi dell’attività russiana recente) dovrà ben calcolarsi il modo con cui il Russo presentava la fecondità della lezione del De Sanctis come collegata alla essenziale «libertà» del grande critico e storico, al suo «antidottrinarismo» e all’«apertezza del suo sistema storico»: sicché «la sua pare un’opera che ancora non sia finita, perché i suoi scolari, da un secolo a questa parte, si sono rifatti e si rifanno a lui per continuare con nuovi particolari e con nuove visioni la sua libera istoria»[98].

Interpretazione che ci dice molto non solo sul crescente valore dato dal Russo al suo primo e fondamentale discepolato desanctisiano, ma soprattutto circa il suo storicismo che teme la chiusura in ogni forma di ortodossia dottrinaria e la tendenziosità di una critica e storiografia che scambi la necessità di un vivo e orientato alimento di metodologia, di filosofia, di generali visioni della vita con la meccanica traduzione consequenziaria di ideologie e dottrine o di posizioni partitiche ed «ecclesiastiche». Che non è certo un invito ad uno storicismo qualunquistico e invertebrato, ma il sano avvertimento dei rapporti non rigidi e sempre fortemente personalizzati fra orientamento, impegno attuale del critico e dello storico e la sua storica capacità di comprensione della complessità e originalità della storia e della poesia.

Si trattava insomma di uno sviluppo storicistico ben suo che centralmente sorregge sempre, con un senso autentico della originalità poetica e personale, l’attività critica e storiografica russiana nel suo accentuarsi di concretezza storica, cosí interessante e stimolante nella tensione contemporanea ad una ricostituzione della storia letteraria come storia intera della letteratura nei suoi nessi con tutta la storia.

Cosí nascono, accanto ai saggi del Tramonto del letterato, i numerosi «ritratti e disegni storici» con cui il Russo nel dopoguerra si apprestava a quella storia della letteratura italiana a cui si sentiva destinato e maturo e di cui nel ’57 appariva il primo volume riassorbente (in una trama fitta e, malgrado alcuni squilibri di proporzione e di densità, ben corrispondente al suo impegno di «raccontare monograficamente, ma facendo nascere la monografia dalla compagine storica della civiltà»[99]) il fecondo lavoro storico-monografico dal ’46 al ’53.

E basterà ricordare per questa fase del suo lavoro i felici capitoli del ’46 sulla letteratura comico-realistica nella Toscana del ’200 (e specialmente quello su Rustico di Filippo, recuperato nella sua notevole statura e nella sua energia morale-poetica), o le vivacissime nuove individuazioni di scrittori come Salimbene, Sercambi, S. Bernardino, o gli spunti rinnovatori nel problema critico di Lorenzo dei Medici o del Poliziano, e, anche piú decisamente, del Pulci e del Boiardo: la interpretazione della «duplicità» di Lorenzo con il richiamo alla «crisi che rappresentava la nuova maturante civiltà, che mentre si sganciava dall’antico metteva fuori le bucce di gemme novelle», la sottolineatura della particolare vita morale che lega il Poliziano al suo tempo e ne sconsiglia immagini troppo «aeree» e «iperuraniche», prive di ogni contatto con la realtà, o le ricostruzioni della poesia del Pulci e del Boiardo in un energico nesso di individuazione e storicizzazione dei loro originali caratteri usufruente una considerazione della loro posizione culturale-sociale nel tempo piú localizzato delle loro città e del loro rapporto con quello svolgimento della letteratura cavalleresca che viene fatta valere, contro la vecchia storiografia positivistica dei generi letterari e contro la totale dissoluzione di essi nella metodologia crociana, come elemento concreto di «progresso di civiltà», riflesso non puramente e astrattamente letterario di «un mutamento degli umori e degli amori di una società nuova e rinnovantesi»[100]. Dove ben si ritrova la matura tensione del Russo ad una effettiva storiografia critica «integrale»[101] con una maggiore spinta a particolareggiamenti piú precisi dei nessi storici, e non perciò semplice storiografia civile e storia degli intellettuali e dell’organizzazione della cultura.

Tendenza storica ben forte e valida nella produzione russiana anche in questi ultimi anni. Produzione certo meno elaborata, appesantita a volte da un maggior ricorso alle citazioni e alle parafrasi didattiche, e da un certo squilibrio fra mosse ed intuizioni energiche e zone meno approfondite e collegate organicamente. Ma sempre produzione centralmente coerente alla genuina tensione critica e storica del Russo che, pur in forme a volte piú stanche e meno approfondite, ridispiegabili negli spunti di piú intera articolazione e giustificazione da parte di un lettore provveduto e attento soprattutto al vivo e al positivo, continua strenuamente ad impiegarsi anche su una materia prima non indagata (i saggi dall’Ariosto al Parini) con indubbi acquisti e stimoli legati ad una sempre maggiore volontà di critica storica e ad un’ambizione di fare e suscitare vera critica e vera storia che si ripercuote in certe scure diagnosi dell’ultimo Russo circa una carenza in tal senso negli studi italiani recenti, nel prevalere di studi tecnicistici e documentari o nella eccessiva riduzione di critica in storia della critica come semplice esposizione dei «pensieri altrui». Diagnosi sulla cui portata ed esattezza occorrerebbe ovviamente troppo lungo discorso, ma che, ripeto, si riconducono, a parte ogni altra considerazione, all’ansia di autentico lavoro critico e storico rinnovatore ed impegnativo mai perduta dal Russo.

E, senza raccogliere qui tutti gli elementi vivi di interpretazione, di indicazione, di scorcio storiografico recuperabili in questa ultimissima produzione (certa maggiore concretizzazione dell’armonia ariostesca o il rilievo degli «idoli epici» del Giorno, o la piú forte accentuazione di valori nuovi del Seicento, elementi variamente poi riconducibili a uno sforzo sempre maggiore di storia della letteratura e della civiltà), basterà ritornare, poco piú indietro, al volume Carducci senza retorica, del ’57, per verificare, in un ultimo impegno di intera ricostruzione critica e storica di una personalità poetica, le tendenze e le capacità di reazione personale del critico in quest’ultima parte della sua vita.

In quel volume infatti le piú accentuate tendenze storiche del Russo si particolareggiavano nella minuta ricostruzione attiva della formazione e dello sviluppo carducciano almeno fino a Giambi ed Epodi e al passaggio da questi a Rime Nuove; mentre, in un certo allentarsi della forza della ricostruzione dinamica e dialettica all’altezza della maturità carducciana, una suprema tensione del critico-uomo nel suo incontro piú personale con il poeta-uomo che aveva dinanzi e che risentiva anche con una particolare consonanza sentimentale (in cui esplodeva tutta l’amarezza e la virile malinconia nativa del Russo, accentuata da un senso di solitudine nella scomparsa degli amici e dei compagni del suo lavoro e della sua generazione e nella tensione attiva e dolorosa fra i suoi ideali, la sua fede e il peso di un presente per tanti aspetti meschino o grave di pericoli paurosi[102]) gli permetteva di cogliere potentemente, e cosí al di là della immagine carducciana di classicità compatta e di ultimo dei classici su cui indugiavano ancora altri critici in quegli anni, l’accento lirico di un Carducci grave e «funebre», dolente e nostalgico, che dava un nuovo senso a quegli stessi miti della romanità (Dinnanzi alle terme di Caracalla) con i quali pure il Russo si riferiva alla sua interpretazione etico-politica di un Carducci collaboratore non solo «ufficiale» dell’ideale unitario del nuovo stato italiano postrisorgimentale.

E sarà stata un’intuizione forse non del tutto ingranata organicamente con il resto del libro e un’accentuazione unilaterale della poesia carducciana, ma essa era pure un’apertura vivida per una nuova comprensione di quella poesia e una prova energica della autentica capacità di reazione critica originale di una personalità tutt’altro che esaurita nelle sue risorse piú interne e che troppe volte è stata ricondotta solo alla figura di un metodologo astratto o di uno storiografo senza un vero fondo di sensibilità personale. Mentre la stessa vivacità e potenza di cui egli dava prova, fin negli ultimi giorni della sua vita, nella polemica civile e le doti originalissime dello scrittore (certe pagine autobiografiche, come quella bellissima in Nascita di uomini democratici sulla sua infanzia siciliana[103] o certe pagine polemiche in cui l’affiatamento intimo con i suoi autori ci dice tanto sul modo con cui egli li aveva vissuti come esperienza intera e mai libresca[104]) testimoniano di una costante fortissima potenzialità interna della personalità da cui erano nate le grandi pagine del critico, dello storico, del metodologo.

A questa personalità nella sua prepotente originalità nativa, nella forza della sua ispirazione morale, nella sua capacità di affermazione e di riassorbimento personale della cultura e della storia in cui si svolse, bisogna sempre risalire per intendere la figura del critico e il suo spicco nettissimo entro la sua generazione pur certo ricca di temperamenti critici originali e di originali diverse vocazioni. Ma d’altra parte non si può risolvere la sua presenza nella storia della critica e della storiografia letteraria novecentesca solo nel riconoscimento di un’eccezionale originalità di personalità troppo isolandola o in una vicenda e in un mito personale quasi barbarico e poetico di scrittore creativo o in una semplice funzionalità della critica rispetto ad una battaglia etico-politica o al massimo storico-culturale. Perché tali elementi sono in realtà componenti tensive essenziali di una genuina vocazione di interpretazione critica, nativa ed educata da un’assidua meditazione e rielaborazione di esperienze critiche storiche e metodologiche, e quindi effettivamente capace di produrre insieme, piú di quanto sia avvenuto in ogni altro critico della sua generazione, contributi effettivi di individuazione di nuclei e atteggiamenti poetici, scorci e schemi storiografici e vive lezioni di metodo.

Critico, storico e metodologo, affiatati al centro da una autentica passione per la poesia, per la storia e per i problemi che ne legano la interpretazione a un nucleo fecondo di meditazione storica ed estetica, si uniscono in Russo in una relazione unitaria e tensiva e avvalorano la consistenza dei suoi contributi di lavoro concreto e la grande efficacia che egli ha avuto e tuttora può avere sulla critica, storiografia e metodologia critica e storiografica.

A lui si ricollega piú che ad ogni altro maestro recente la via della critica storicistica, a lui si deve se questa ha assorbito gli elementi piú storicistici del crocianesimo e del gentilianesimo e insieme ha infranto i limiti piú caratteristici del crocianesimo recuperando essenziali elementi della grande matrice desanctisiana e prospettandosi come un sistema aperto e disposto ad arricchirsi, e motivarsi, a nuovo livello di situazione culturale e storica, di nuove esigenze e di nuovi problemi, ma pur sempre centralmente contraddistinto da un fondamentale rifiuto di ogni forma di tecnicismo, di impressionismo, di documentarismo fine a se stesso.

Naturalmente, come egli non è il solo a cui molti di noi possono guardare nella storia della propria formazione e del proprio svolgimento (e come potrei io qui almeno non ricordare quell’altro grande e pur cosí diverso maestro di tanti studiosi poi allievi del Russo negli anni pisani fra ’31 e ’37 che fu Attilio Momigliano?), cosí la sua lezione può apparire usufruibile entro un angolo assai vasto di direzioni storicistiche. Ed è chiaro che ciò avvenga e possa avvenire nel confronto del suo generale storicismo e dei temi che furono piú suoi, come quelli dell’«umanità-forma» della poetica, del nuovo sociologismo e della «politicità trascendentale», della interpretazione etico-politica dei poeti nelle loro diverse accentuazioni nel suo svolgimento. Ma questa possibilità di rivivere la sua eredità entro nuovi contesti di gusto, di estetica, di cultura, in un ricambio e affiatamento diverso con nuove e diverse esigenze, verifica il fatto fondamentale che tale sua eredità storicistica è dunque un problema vivo ed aperto, non un insieme di formule concluse e valide solo nell’ambito di un’esperienza culturale e critica tutta conclusa e consumata.

E, d’altra parte, a me pare che il rapporto interno piú vivo dei temi e problemi storicistici da lui proposti riconduca pur sempre ad un’esigenza essenziale senza la quale non si può comprendere la vitalità dell’opera del Russo e dei problemi che piú lo tormentarono e a cui egli trovò soluzioni, che possono essere discusse nella loro precisa formulazione e giustificate storicamente nell’ambito dei termini filosofici e culturali da lui usufruiti, ma che a quell’esigenza sempre assiduamente risalgono. L’esigenza e l’assillo costante di far valere l’autenticità dell’esperienza e della realtà poetica, nella storia di cui essa fa parte alimentandosene e illuminandone i motivi profondi, e, nello sforzo di ricondurla sempre a espressione di umanità e storicità (umanità come storicità e storicità come umanità), di salvaguardarne sempre la forza vitale ed effettiva. Cosí come la tensione a fare storia attiva di partecipe e non di «spettatore» si traduce però nell’esigenza profonda dello storico di commisurare l’orientamento deciso e attuale con il dovere di non perdere mai la originalità storica del passato.

E ancora, dal centro dei suoi problemi e della sua attività, l’esigenza di un’essenziale indissolubilità fra la preparazione specifica del critico e storico letterario e l’indispensabilità della vita intera, necessaria, nel nesso di umanità e di storicità, a comprendere da critico-uomo poeti-uomini e storia e arte umana.

Avvertimento contro ogni forma di chiusura puramente specialistica ed accademica usufruibile ad ogni nuovo livello di preparazione e di acquisizione di tecniche e strumenti euristici: che il critico e storico sia un uomo di mestiere affiatato concretamente con i problemi precisi dell’operare artistico, con quelli della meditazione estetica e della storia precisa in cui l’arte si afferma, ma che sia anzitutto uomo intero, sí che nel suo stesso lavoro vivano la sua fede morale, i suoi ideali ed impegni nella civiltà e nella vita degli uomini, come essi vissero per il Russo nella sua critica e nella stessa umanità-forma dei suoi poeti.

Per questo la sua lezione, concretata nella complessità e fecondità dei suoi esempi realizzati e dei suoi problemi aperti, si è comunicata con tanta forza ai suoi allievi diretti e indiretti, a cui non sarà facile dimenticarsi di lui, considerare la loro esperienza di lui solo un alto episodio concluso, un’immagine venerata e distaccata da depositare piamente in un ideale obitorio lontano dai luoghi in cui continua la loro vita, e non invece, come essa è, una presenza irrequieta e feconda che li stimola ad impegni totali e a lavoro concreto con cui onorare davvero la sua memoria e riconoscere davvero il larghissimo debito contratto con lui.


1 Dialogo dei popoli, 2a ed., Firenze 1955, p. XIV.

2 Si vedano le parole con cui il Russo parla del suo primo lavoro nella prefazione alla 5a edizione (Bari 1946) di Vita e disciplina militare, p. X.

3 Pur affermando recisamente (nello scritto, del ’14, sulla Catarsi aristotelica, pubblicato nel ’19 a Caserta e poi riportato nella seconda edizione di Problemi di metodo critico, Bari 1950) la particolare «moralità interna» dell’arte in senso crociano (p. 58). Questo scritto, coevo al Metastasio, è pure importante a indicare la disposizione russiana, nell’ambito di una scuola cosí poco filosofica come quella flaminiana, ad affrontare problemi estetici e ad impegnarsi nella loro soluzione (anche se in quel caso con un certo eccesso di modernizzazione in senso crociano).

4 Come il Russo riconosceva piú giustamente nella prefazione alla 3a edizione del Metastasio (Bari, Laterza, 1945), pp. VII-VIII.

5 Tale è il senso sostanziale di quel capitolo, anche se la parola «poetica», con lo sviluppo nuovo che essa portava nella forma piú incerta di quelle pagine, fu aggiunta esplicitamente nell’edizione del 1945. Cfr. la p. 227 della 3a edizione e la p. 252 della 1a.

6 Penso, in tal caso, ad un’efficacia soprattutto del saggio carducciano del Croce del 1909, uno dei piú ricchi di quella fase critica crociana quanto ad articolazione di tendenze interne della personalità del poeta studiato.

7 Per la decisiva incidenza del volume nella storia della critica metastasiana si veda il saggio di storia della critica metastasiana di S. Romagnoli nel II vol. dei miei Classici nella storia della critica, 2a ed., Firenze 1961, pp. 76-77.

8 Edizione del 1915, p. 218.

9 Come quella sul supporto fra i giovani e i maestri, caratteristica per un uomo che, pur dando alto valore alla scuola e ai discepoli scolastici e non scolastici (donde l’antipatia per lo sciocco orgoglio dei «superatori» e dei genialoidi autodidatti), vide sempre il pericolo delle fedeltà passive, né chiese mai (da maestro) sudditanze e obbedienze di congrega e di chiesuola da lui combattute in ogni forma della vita civile e accademica: «Si corre sempre pericolo di scarnirsi intellettualmente e di deformarsi moralmente in un lungo e morbido contatto coi maestri» (p. 68 della prima edizione).

10 Si veda in proposito la commossa, dolorosissima e vivacissima rievocazione della sua partecipazione alla guerra, allargata alla diagnosi della crisi di tutta la generazione «carducciana», nel discorso del 1961, La nascita del fascismo (Testimonianza di un vecchio combattente), in «Belfagor», 2, 1961, specie le pp. 141-149.

11 Vita e disciplina militare è il titolo della edizione del ’34 e di quella del ’46, da cui cito. Nella prima edizione il titolo era Vita e morale militare: il cambiamento indica bene le piú affinate esigenze democratiche dell’autore che vedeva chiaramente già nel ’34 l’assurdità di postulare una morale «militare» distinta dalla morale civile.

12 Op. cit., p. 145. Poi nella prefazione del 1946 si chiariva anche come la stessa letteratura «quando ha una sua genuina ispirazione, anche se è modesta, può essere stimolo di azione e di una qualche fede».

13 Cfr. op. cit., p. 88.

14 Cfr. op. cit., p. 101.

15 Cfr. Elogio della polemica, Bari 1933, p. 6.

16 Giovanni Verga, 3a ed., Bari 1941, p. VIII.

17 Come egli racconta nella commemorazione del Flamini («Belfagor», 2, 1961, p. 220), già a Pisa aveva abbandonato velleità di attività poetica riconoscendo che il suo era «cervello di critico e di storico» e che la sua vocazione autentica di scrittore si realizzava nella critica e nella storia. Consapevolezza teorizzata poi nello stesso rifiuto del critico che poeteggia in margine ai propri autori e nell’immagine del critico che realizza il suo destino di scrittore nel concreto suo modo di fa rivivere criticamente gli autori interpretati e in quella «oratoria del gusto» di cui egli fu grande maestro. Mentre le pagine a volte bellissime del memorialista impegnato e del polemista si saldano chiaramente al centro del suo atteggiamento di critico e di storico e non sono mai esercizio di prosa d’arte e di bella letteratura.

18 Giovanni Verga, Napoli 1920, p. 18.

19 Pur con i correttivi, ancora deboli, della distinzione fra «spontaneità» ed «estemporaneità», fra passione psicologica e passione come arte, entro i quali piú forte batte l’accento sull’attacco all’ammirazione equivoca per gli scrittori troppo tormentati e sulla distinzione tra sforzo e forza.

20 Cfr. Giovanni Verga cit., Napoli 1920, il capitolo L’arte sociale (pp. 121 e ss.).

21 Anche se il critico storico si preoccupava di smorzare il semplice valore del suo saggio come «ritorno» pragmatico al Verga per un’«arte dell’avvenire» (op. cit., pp. 22-23).

22 Per l’essenziale stimolo gentiliano in questo periodo è importantissimo il lucido riconoscimento che ne dette il Russo stesso nelle recentissime pagine del Compendio storico della letteratura italiana (Messina-Firenze 1961, p. 800), parlando della «generosa ambizione» del Gentile «di avviare l’unità spirituale fra il letterato e l’uomo civile, per cui proprio da lui poté cominciarsi a parlare del “tramonto del letterato”. E ci fu chi, pur scolaro del Croce, insistette su questa qualifica del nuovo periodo storico, intitolando un suo saggetto giovanile Il tramonto del letterato».

23 Problemi di metodo critico, Bari 1929, p. 233.

24 Si veda per l’accento piú gentiliano che crociano di tali istanze l’articolo, pure del ’20, sulla riforma dell’educazione, in Problemi di metodo critico cit., specie a pp. 249, 251, 256.

25 Op. cit., p. 244. Orientamento appassionato e chiaramente non privo di forti rischi nella comprensione del passato (e del presente), che pure il Russo avvertiva quando aggiungeva (a p. 245): «Ma non si negano oggi le benemerenze del letterato italiano per il passato, se la grande linea storica dal Petrarca al Monti, dai neoplatonici dell’Accademia fiorentina al Rosmini, è di letterati: cioè di uomini che per necessità storica si divisero a mezzo tra la loro filosofia o poesia, autonoma nel recinto dell’intelletto, e la loro politica schiava, e chiamiamo cosí genericamente tutto ciò che si riferiva ai doveri, alle vicende e alle lotte dell’uomo nel mondo storico della volontà. Solo che quella grande linea della storia italiana oggi è chiusa, e i suoi rappresentanti ritardatarii troppo si sono indugiati in mezzo a noi, e troppi onori hanno per sé reclamato».

26 Scrittori-poeti e scrittori-letterati, Bari 1945, p. 6, in cui pur giustificava il saggio come una «esperienza» a suo modo necessaria e non priva di una «maggiore agilità antischematica» (p. 5).

27 Problemi di metodo critico cit., p. 130.

28 Op. cit., p. 125.

29 Op. cit., p. 124.

30 I Narratori, Roma 1923, p. 26. Pagina essenziale per un’apertura storica del problema e della periodizzazione del decadentismo.

31 Nell’avvertenza alla seconda edizione del 1943 il Russo accentuava il carattere dialettico di quelle diverse culture in una superiore fusione nazionale, ma ribadiva il primato storico della cultura meridionale di indirizzo «storiografico-dialettico» e, alla fine, piú europea, ricercando, a ritroso, una linea piú viva della storia moderna italiana dalla fine del ’500 in poi nella cultura meridionale. Dove si avvertiva anche uno spunto di rivalutazione parziale del ’600 che tornerà molto tardi negli ultimi schemi storiografici del Russo.

32 E sarà giusto citare, ancora una volta, un appoggio gentiliano alla diagnosi russiana (il libro di Gentile su Gino Capponi e la cultura toscana del secolo decimonono, Firenze 1922).

33 Donde perciò il significativo giudizio entusiastico di Giustino Fortunato (vedi «Belfagor», 2, 1952, p. 208) e lo stesso modo «pedagogico» in senso storico-etico con cui, nel ’24, il Russo presentava una ricca antologia desanctisiana (Gli scrittori d’Italia, Firenze 1924), contro una deformazione declamatoria ed estetizzante dei nostri classici.

34 Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, Venezia 1928, p. 378. Il libro rimase sostanzialmente sempre immutato, tanta era, agli occhi del Russo, la sua compiutezza e la forza centrale della sua ispirazione. E in realtà poco c’era da mutare, data la prospettiva generale russiana, anche se altre posizioni storiche e ideologiche avrebbero da proporre forti correttivi e modifiche, specie per quel che riguarda la cultura non meridionale di secondo Ottocento. Ma, ad esempio, certe caratterizzazioni limitative della cultura fiorentina di quel periodo, specie in sede filosofica, mi paiono in realtà ancora utilizzabili anche in una diagnosi piú complessa e meno passionale.

35 Elogio della polemica, Bari 1933, p. 324: «È la sorte di tutti i letterati puri, quella di aderire a governi reazionari, fatti apposta per favorire la pigrizia mentale e musaica; reazione accademica in letteratura è anche reazione in politica».

36 Op. cit., p. 222: «La cultura vuole avere sempre un carattere di storicità diffusa e di organicità».

37 Al Barbi furon dedicati nel ’29 i Problemi di metodo critico e nell’edizione del ’50 di questo libro (da cui scomparve quella dedica) il Russo spiegava, nella prefazione, come si fosse trattato di un contatto fecondamente reciproco se il Barbi aveva almeno accettato da lui «la terminologia filosofica nuova» e parlava anche lui di «problemi». Altri elementi della cultura fiorentina furono avvicinati dal Russo nella fervida amicizia con Calamandrei e Pancrazi. Né mancò in lui l’apprezzamento personale e il riconoscimento di valore di «ospiti fiorentini» come Montale e Gadda. Ma certo dissensi essenziali separavano il Russo non solo dagli aspetti fiorentini papiniani-bargelliniani, ma anche da quelli derobertisiani, solariani e poi dell’ermetismo poetico e critico. Mentre si deve pur ricordare che l’acquisto nel Russo di maggiore tensione alla valorizzazione della cultura e poi del linguaggio dei poeti poteva trovare forti stimoli e consonanze nel De Lollis e nella versione di svolgimenti crociani e delollisiani del Petrini.

38 Nel 1926, in Problemi di metodo critico cit., pp. 195 e ss.

39 Nel 1930 (Elogio della polemica cit., p. 229) il Russo piú fortemente ribadiva il suo rifiuto del «poeta ignorante» e «puro folle» come «bassa illusione romantica».

40 Piú tardi (Jacopone da Todi, poeta, 1952), in Ritratti e disegni storici, Serie prima, Firenze 1960, p. 57, il Russo rifiutava la formula del ’26 e affermava direttamente la poesia jacoponica precisando che nella sua vecchia formula c’era soprattutto l’esigenza di «esorcizzare la tentazione di chi voleva fare di lui un poeta “puro”».

41 Il problema della genesi e dell’unità della «Divina Commedia», 1927, in Problemi di metodo critico cit., pp. 39 e ss.

42 Nel 1926, in Problemi di metodo critico cit., pp. 81 e ss. Saggio notevole anche per la capacità russiana di comprendere storicamente la funzione positiva dei commentatori aristotelici del ’500 rispetto allo svolgimento della coscienza estetica moderna.

43 Si veda ora, anche per differenze e sviluppi diversi di una nozione di poetica nel mio esercizio critico, il mio saggio, Poetica, critica e storia letteraria, in «La Rassegna della letteratura italiana», I, 1960, e, per una storia della nozione nella critica italiana novecentesca, le pp. 588-594 del saggio di L. Anceschi, Le poetiche del Novecento, nella IV parte di Momenti e problemi di storia dell’estetica, Milano, Marzorati, 1961. Non andrebbe poi dimenticato l’uso della nozione di poetica anche nel Petrini, alla cui parziale vicinanza di interessi col Russo ho già accennato.

44 Si pensi almeno alla discussione e interpretazione dantesca del Gramsci (Letteratura e vita nazionale, Torino 1954, pp. 34 e ss.), il quale, come è noto, sentí positivamente, nel suo dialogo costruttivo con Croce, stimoli di posizioni russiane.

45 In La critica letteraria contemporanea, Bari 1942, vol. I, pp. 74-76.

46 Essenziali per lo sviluppo russiano di tali concetti le pp. 86-88 del vol cit. che paiono rispondere anche ad avvii spesso andati al di là della stessa successiva meditazione e applicazione del Russo, piú fortemente accentuando l’elemento di logica critica interna all’arte e la connessione con le stesse poetiche degli scrittori contemporanei: «Ma se l’arte porta in sé come sigillata e invisibile quella logica critica che governò l’artista nel travaglio della creazione e che si perpetua in ogni lettore che riflette su quell’arte, cotesta arte non può essere dunque vita ingenua e aurorale dello spirito, tutto al di qua di ogni riflessione metafisica. L’ingenuità dell’arte (e l’ingenuità è certamente il suo carattere precipuo) non può essere un’ingenuità di natura, ma un’ingenuità di conquista. L’arte non nasce, ma diventa ingenua, e diventa ingenua attraverso una sempre piú attenta purificazione e sublimazione di cultura. La poesia non è una barbarie naturale, ma è una barbarie che si ha per conquista, e la verginità poetica la si possiede veramente quando la si è ben perduta. Essa non è tale all’origine ma nell’evoluzione di un processo spirituale... Anche le poetiche degli scrittori contemporanei, che danno tanta importanza alla letteratura, al tirocinio, all’arte come mestiere, e fanno nascere la loro produzione poetica e letteraria da una macerazione di cultura, ribadiscono cotesto principio di un’arte e di una poesia, la cui verginità e ingenuità sono una verginità e un’ingenuità di conquista e non di natura...».

47 Si veda del resto già lo scritto del ’27 su Machiavelli e il moderno storicismo, in Problemi di metodo critico cit., p. 225: «dove manca la sensibilità filologica non c’è critica, ma vacue e contradditorie formule».

48 Si veda ancora il saggio su Machiavelli cit., p. 226.

49 Piú tardi, in una conferenza del ’42 (Machiavelli e il problema morale, riportata come postilla nel volume Machiavelli, Roma 1945), il Russo puntava di piú sul limite storico del Machiavelli alla luce di una piú piena linea della storia italiana con la presenza del Vico. E riallargava insieme il suo personale orizzonte etico-politico, nell’esperienza dolorosa della dittatura e della guerra, in un piú forte nesso fra politica e morale, mentre la prima esperienza machiavellica aveva pur significato per lui un irrobustimento della sua moralità fuori di ogni ulteriore pericolo di moralismo astratto.

50 Esigenza di storia concreta e ideale nel ciclo di una totale esperienza umana per cui Machiavelli e Savonarola segnavano anche due momenti «eterni» dello spirito umano. Esigenza che confluirà, a suo modo, nello sviluppo dello storicismo «simbolico» e immanentistico-trascendentale.

51 Le indicazioni russiane sul linguaggio del Principe mi paiono verificate nella loro fecondità anche dall’analisi stilistica di F. Chiappelli (Studi sul linguaggio del Machiavelli, Firenze 1952): e ciò può essere una riprova del fatto che la critica di tipo russiano, al livello raggiunto in quegli anni, offriva termini di base anche ad una critica stilistica e linguistica piú difficilmente capace di autonome soluzioni senza l’appoggio di una precedente interpretazione centrale e storico-critica.

52 Volume a volte piú faticoso, ma pure coerente al metodo genetico del Russo e al suo senso dei personaggi come centri vivi di motivi del mondo interiore dello scrittore e della sua prospettiva storica (il caso della conversione non miracolistica dell’Innominato).

53 L’introduzione è integrata poi nel saggio del ’45 su Alfieri politico e segna cosí anche un chiaro legame fra le posizioni e gli interessi del Russo verso la fine della guerra e lo sviluppo e le accentuazioni di quelli nel periodo post-bellico.

54 Anche se nel caso del Nievo il Russo portava una troppo forte cesura fra la poesia del Castello di Fratta e la seconda parte e l’impianto generale del romanzo su cui forse una maggiore considerazione della poetica e della intenzione politica nieviana avrebbe potuto riportare il Russo a una piú complessa impostazione e soluzione del problema generale delle Confessioni, anche nei rapporti fra la poesia piú profonda del tema dell’infanzia e della memoria poetica e le ragioni generali che sorreggono e quella poesia e lo sviluppo romanzesco-autobiografico ed etico-politico di tutta l’opera. E lo cito come uno dei casi in cui le istanze metodologiche del Russo superano a volte le sue soluzioni critiche concrete e confortano l’integrazione di sviluppi e di cambiamenti proprio dentro un possibile sviluppo di impostazioni generali che da lui hanno avuto fortissimo impulso.

55 «Allo storico quel che importa è la vocazione della mente e non il suo temporaneo contenuto», in Ritratti e disegni storici, I, Bari 1946, p. 217. «Poiché la ricerca della critica è sempre ricerca del tono e non delle caduche e faziose ideologie», op. cit., p. 218.

56 Se il mio saggio del ’36, Linea e momenti della lirica leopardiana, nucleo coerente dei miei successivi scritti leopardiani, era fuori di ogni suggestione della interpretazione russiana, piú tarda, il mio volume del ’47, La nuova poetica leopardiana, non mancava di recuperare nel Russo almeno l’appoggio del rilevato elemento agonistico e del suo rifiuto della diagnosi crociana della «vita strozzata» (cfr. op. cit., p. 221). E si noti come, pur con contraddizioni che non mancano in questo saggio, cosí tormentato e cosí anche significativo per l’«irrequietezza» del Russo e per la ricchezza di spunti che rompono una compattezza piú facile e consequenziaria, il critico di fronte alla canzone Alla sua donna avverta anche la possibilità di una «poesia della mente» che «non ha presa rapida nella fantasia del lettore, ma intesa e assimilata a poco a poco ha un suo alto fascino, del quale ci si rimorde di aver dubitato» (op. cit., p. 305).

57 Cfr. op. cit., p. 243: «Accanto al compianto (nella Canzone all’Italia) c’è pur l’accento agonistico, un accento si direbbe di natura alfieriana che fu sempre vivo nel nostro scrittore fino all’estremo respiro». Vedi anche a p. 268 in cui parlando del Bruto minore (e con definizione «titanica» pur discutibile) ritrova l’animus agonistico e addirittura riconosce in Leopardi «in virginee e gracili forme uno dei bellissimi titani del primo ’800 europeo».

58 L’isolamento degli idilli «come le sole poesie in cui si realizzi la grandezza del Leopardi è un’aberrazione dovuta al diabolico e ironico risorgere del genere letterario, pur nella mente dei critici piú alieni da tali spartizioni. Idilli e canzoni civili possono avere una genesi fraterna e analoga modulazione ritmica», op. cit., p. 257. E insiste sul significato della definizione leopardiana degli idilli come «esprimenti situazioni, affetti, avventure storiche del suo animo».

59 Op. cit., p. 258. E poi: «se gli idilli non fossero battezzati idilli, si potrebbero riconoscere come preghiera e inni sacri». E del resto altrove (op. cit., p. 317) per il Canto notturno si afferma l’afflato pessimistico-cosmico dell’«idillio» «contemplazione estatica e dolorosa degli aspetti di questo mondo, sia pure visto attraverso i propri avvenimenti interiori», e si riconosce l’«unilateralità» della formula di Leopardi come «poeta degli idilli». Sicché, a ben guardare, la formula del «poeta dell’idillio» (piú che degli «idilli») era accolta, ma caricata di una complessità e profondità di motivi che ne alterava di molto il significato crociano.

60 Decameron, a cura di Luigi Russo, Firenze 1939, p. VII. Ed è evidente la coerenza a tale impostazione quando si ripensi agli esempi concreti della sua attenzione linguistica: le note sul colorito artistico idiomatico della novella di Chichibio o dell’Angiolieri o di Frate Alberigo come proprio di una civiltà artistica matura che, «sicura del suo linguaggio, distingue le particolari e diverse lingue dei suoi personaggi» (commento citato, p. 421) o al rilievo del linguaggio rusticale della novella della Belcolore in accordo con il centro persistente che «la lingua muta col mutare dell’ispirazione» (p. 464) e la conseguenza che una critica linguistica e stilistica è sempre integrazione, non alternativa autonoma, di una critica che parte dal centro dell’ispirazione personale-storica.

61 Ché anzi, proprio nel capitolo sulla lingua, aggiunto nel ’41 alla sua monografia verghiana (che è comunque la prova piú concreta dell’esigenza russiana di verificare la fecondità della piú recente dimensione del suo metodo critico proprio nella sua applicazione al primo suo grande lavoro), chiaramente teneva a precisare (pur cercando di affiatarsi con la problematica aperta da de Saussure e Bally e ricavandone comunque un ausilio concreto a meglio scandire il passaggio dai Malavoglia a Mastro Don Gesualdo) la sua forma di utilizzazione di una critica linguistica come una «nota», un «episodio» della critica letteraria. Mentre (con una polemica che piú tardi si farà anche piú acre e duramente preclusiva) sin d’ora si nega una autonomia della critica linguistica come descrittiva statica della maniera espressiva di uno scrittore (Giovanni Verga, ed. 3a, Bari 1941, pp. 360-361), ricaduta, anche quando si presenta con la piú chiara ambizione di critica stilistica, nella vecchia critica grammaticale se non rampolli «dall’interno di una critica come storia del mito etico-lirico dello scrittore studiato».

62 Letture critiche del «Decameron», Bari 1956, p. IX.

63 Commento citato, p. 322. E vedi anche pp. 336 e 342, in cui lo sforzo del Russo di ampliare le definizioni correnti del poeta dell’intelligenza, della saviezza ecc. non solo è guidato da un piú forte bisogno di reagire (pericolo a volte pronunciato anche in lui ed anzi eccessivamente segnalato da altri come uno degli aspetti della sua critica definitoria e formulistica) alla ristrettezza della formula in cui «non si esaurisce l’arte del poeta», ma si riconduce a individuare una piú interna sorgente di poesia organica in una posizione che, anche nella polemica e nella satira, è soprattutto affermazione e rivelazione di una fede e di «una verità positiva, nuova», di «una nuova religione di natura che l’ultimo ’300 e spiegatamente tutto il ’400 viene rivelando». Donde – contro le ipotesi di un Boccaccio medievale a cui pure il Russo poteva dare un certo avvio con certe precisazioni sulla cornice, sul linguaggio, su temi medievali, con la stessa critica alla interpretazione sette-ottocentesca della polemica antifratesca del Boccaccio – la salda intuizione storicistica e critica di un’arte spontanea e insieme «trascendentalmente» simbolica di uno svolgimento storico centralmente innovatore.

64 La critica letteraria contemporanea, Bari 1942, I, p. 8.

65 Op. cit., III, p. 79.

66 Op. cit., III, p. 76.

67 Op. cit., III, pp. 48-49.

68 Op. cit., II, p. 319.

69 Op. cit., I, pp. 99-100.

70 Mentre riconosce essenziale quell’oratoria del gusto, quella didascalica con cui il critico «eccita se stesso e il lettore per suscitare un’atmosfera propizia, per determinare un’assonanza spirituale ecc.» (Op. cit., I, p. 105).

71 Op. cit., I, p. 181.

72 Op. cit., II, p. 320.

73 Non senza lo sforzo di comprendere, e proprio alla luce della sua passione etico-politica, le ragioni dell’ermetismo (op. cit., III, p. 245) come evasione «dall’opprimente menzogna del mondo offeso». Pur aggiungendo: «Ma poi mi accorgo che non è del tutto vero neppure questo».

74 Op. cit., I, p. 145.

75 Op. cit., I, p. 11.

76 Si pensi in tal senso allo stesso tentativo del Sapegno di trarre dalla teoria della circolarità dello spirito e da una pagina della Poesia (Bari 1936, p. 131) un preciso appoggio crociano in direzione della ricostruzione di una storia letteraria (in Prospettive della storiografia letteraria, in «Approdo», I, 1958). E si veda in proposito quanto io dico nell’articolo citato, Poetica, crítíca e storia letteraria.

77 La critica letteraria contemporanea cit., II, p. 77, importantissimo contro la separazione assoluta fra storia della poesia e storia della cultura.

78 Pur con variazioni di accento percepibili in questi stessi anni quando intuiva, non interamente sfruttandolo, il rapporto fra poetica e coscienza critica del poeta (vedi nel capitolo del 1941 del Verga, ed. 1945, p. 385) o viceversa troppo puntando isolatamente sulla poetica come «meditazione intorno all’arte» (nel saggio leopardiano, in Ritratti e disegni storici cit., I, p. 225). E si potrà ancora osservare qualche oscillazione fra la intuizione della poetica come tensione generale di un’epoca e di una corrente (riconducendo ad un’implicita affermazione di essa lo stesso Croce nel suo rapporto Alfieri-Sturm und Drang) e l’insistenza sul carattere personale «idiotistico» della poetica (p. cit. del saggio leopardiano). Ma oscillazioni a lor modo feconde per nuovi e piú interi e articolati sviluppi di quello strumento storico-critico.

79 Op. cit., II, p. 84.

80 Op. cit., II, p. 79.

81 Il tramonto del letterato, Bari 1960, p. 518.

82 Con scelte per lui significative: come lo Jovine della Signora Ava e delle Terre del sacramento, il Pratolini delle Cronache di poveri amanti, o il Gattopardo del Tomasi di Lampedusa, e con rilievi anch’essi significativi sul «narcisio amore per la sua bravura» e sulla «concittadinanza provvisoria» con i contadini del Sud del Levi di Cristo si è fermato a Eboli o sulla mancanza di svolgimento storico di Moravia o sui limiti di «maniera» del linguaggio dialettale di Pasolini e magari, in campo cinematografico, sull’evasività della Dolce Vita di Fellini.

83 Che è il senso da dare alle parole con cui nel 1942 definiva il liberalismo come «un regime religioso e non un particolare ordinamento giuridico, che può ben riempirsi del contenuto sociale offerto dai tempi...» (La critica letteraria contemporanea cit., I, p. 144).

84 Tutta da vedere in proposito è la prefazione del Dialogo dei popoli cit., e specie le pp. XIX-XXIII in cui il Russo rivedeva la sua attività critica come ispirata ad una concezione democratica progressiva (riconosciutagli dal Gramsci) e maturata attraverso il De Sanctis.

85 Si veda in proposito la nota a p. 513 del Tramonto del letterato cit., dove il Russo dice di aver scritto il saggio su Verga poeta della povera gente e quello sul Di Giacomo poeta grande del reame di Napoli «quasi per rispondere ai voti che fece Gramsci, nelle sue carte, sulla mia critica letteraria, orientata verso il De Sanctis e sulla letteratura popolare».

86 Battendo sulla novità non crociana del metodo genetico, della nozione di poetica, della valorizzazione dialettica del diverso dalla poesia contro la rigida distinzione poesia-non poesia, della integralità nuova del proprio storicismo.

87 Nel primo saggio pariniano del 1959 (in Ritratti e disegni storici, Serie seconda, Firenze 1961, p. 399), il Russo precisa in proposito: «Il Croce, dalla sua comunicazione del 1908 sulla liricità fino a La poesia del 1936, aveva sempre maturato e tenuto fede a un concetto puro della poesia, distinto e vorrei dire distillato rigorosamente non solo dalle altre forme dell’attività dello spirito, ma anche dalla stessa letteratura in cui doveva confinare Orazio, Molière, Goldoni...; in tale nobile recinto sarebbe potuto rientrare anche lo squisito poeta del Giorno e delle Odi».

88 Si veda il lungo capitolo dedicato al Croce e al Gentile, nel Compendio storico della letteratura italiana, Messina-Firenze 1961, pp. 749-757, con l’importanza data alla collaborazione e polemica dei due maestri, in funzione di una concezione della poesia opposta alle vecchie concezioni «letterarie» e a quelle intellettualistiche o sensualistiche decadenti.

89 Si vedano in proposito La critica letteraria e il marxismo («Belfagor», 1, 1946, pp. 123-125) e Pretesti marxistici su una novella del Verga («Belfagor», 2, 1951, pp. 223-225). E, contro l’interpretazione marxistica del De Sanctis, «Belfagor», 6, 1952, p. 611.

90 Cfr. Il teatro di Carlo Goldoni (1960), in Ritratti e disegni storici, Serie seconda, Firenze 1961, p. 359.

91 Quando risolveva la posizione del Gramsci in una posizione sostanzialmente «desanctisiana» (vedi «Belfagor», 2, 1951, p. 224).

92 Compendio storico della letteratura italiana cit., p. 800.

93 Cfr. «Belfagor», 1, 1957, p. 1 (per il richiamo a De Lollis e Petrini come veri iniziatori della critica del linguaggio poetico e per i «vanti» di novità dei nuovi critici stilistici); e «Belfagor», 5, 1958, p. 570 contro la «critica delle ragnatele» o degli «apolidi». In «Belfagor», 3, 1952, p. 351, il Russo considerava la critica stilistica solo come una delle «forme preliminari» della critica storica.

94 Ed è semmai su quella base piú sua che egli esaminava ora il «linguaggio storico» della Gerusalemme o, piú recentemente, il linguaggio pariniano.

95 E si potrà ricordare il fatto che vari scolari, specie piú recenti, del Russo si sono volti ad una critica piú chiaramente marxistica e che il Russo ha spesso accolto, in questi ultimi anni, in «Belfagor» piú i loro scritti che non quelli di altri suoi scolari piú volti invece a comporre la loro educazione russiana con esigenze di tipo stilistico (magari parlando di stilistica storica). Ma sulla scuola del Russo e suoi modi in cui il suo segno potente si è variamente inciso su singole personalità di studiosi, suoi scolari diretti o indiretti, occorrerebbe un particolare discorso che non può esser fatto interamente coincidere con quello qui svolto circa gli atteggiamenti personali del Russo.

96 «Senza insistere sul contenuto e sulle apparenze dei partiti politici» (Tramonto del letterato, Bari 1960, pp. VII-VIII). E, si badi, «patria celeste» dei poeti, ma anche dei filosofi e critici. Frase che permette di cogliere un elemento tipico del Russo che nella sua critica impegnata e storica voleva però salvare sempre una forma singolare di «trascendentalità» dei suoi stessi ideali storicistici e immanentistici. Senza pericoli di aperture equivoche, ché proprio nell’ultimo Russo si fa piú forte e intransigente l’affermazione che solo sulla linea dell’immanentismo e dello storicismo son possibili una vera storiografia e una vera critica (da cui i cattolici per la loro concezione «eteronoma della storia» sono esclusi, come dalla storiografia e dalla critica sono esclusi tutti quelli che si «attacchino a una qualche confessione». Cfr. Storia della letteratura italiana, I, Firenze 1957, p. X).

97 Storia della letteratura italiana cit., p. 471.

98 Vedi l’introduzione a F. De Sanctis, Saggi critici, a cura di L. Russo, I, Bari 1953, p. LI (e poi in Ritratti e disegni storici, serie 2a, Bari 1953, p. 331). Preminenza del magistero desanctisiano e congenialità del Russo col De Sanctis nella ripugnanza a una definizione «ortodossa» del proprio storicismo ribadite esplicitamente nella prefazione al Dialogo dei popoli cit., pp. XXI e XXII. Rispetto alla filosofia del Croce e di Gentile («non rinnego l’influenza del Croce che è stata grande su di me e anche quella del Gentile che in ogni tempo mi ha creato un fermento contro il crocianesimo ortodosso») egli dice di averne spremuto il succo senza potersi dire né gentiliano né crociano. E «anche in questo – si parva licet componere magnis – mi sono istintivamente regolato come si regolò il De Sanctis che derivò il suo storicismo dalla filosofia di Hegel senza potersi dire per questo un hegeliano».

99 Come dice nella prefazione al recentissimo Compendio storico della letteratura italiana cit. (p. 1), che pur rispecchia in una sintesi assai efficace le tendenze e i contributi particolari del Russo e, in qualche caso, prospetta avvii di interpretazione anche piú stimolanti di quanto avvenga in alcuni degli ultimi saggi in esso riassunti.

100 Storia della letteratura italiana cit., pp. 570, 585-586, 471.

101 Storia della letteratura italiana cit., p. 577.

102 Malinconia che si alternava all’ira e insieme a quella lo spingeva al lavoro e alla polemica, come il Russo ci dice in una delle sue ultime pagine («Belfagor», 5, 1960, p. 626): «Due fere donne anzi due furie atroci / tor non mi posso, ahi misero, dal fianco: Ira e malinconia». «Questi sono i versi che spesso mi ripeto, di uno dei miei poeti preferiti, l’Alfieri, e la solitudine alla quale mi sono volontariamente condannato (per sconto di peccati miei) forse mi accresce nell’immaginazione il pericolo di una sempre piú irreparabile rovina».

103 «Da ragazzo ho assistito a un’altra predica a mezzanotte, il venerdí santo, dopo la processione del Cristo morto attraverso le vie, con le tenebre squarciate da grandi falò e da fascine accese. Il prete salí sul pulpito e fece una predica assai commovente (i preti vecchi sapevano muovere gli affetti, ora, i nuovi, son quasi sempre ossi di seppia), e in ultimo gettò uno dopo l’altro i tre chiodi della croce in mezzo alla folla. – A te, galantuomo, che hai succhiato il sangue del povero. A te, donna adultera, che hai insozzato il letto del tuo sposo. A te usuraio, che approfitti della miseria dei poverelli. – I chiodi volavano l’uno dopo l’altro in mezzo alla folla atterrita. Sospiri e invocazioni e pianti si levavano da tutta quella gente ginocchioni, e io fanciullo, candidissimo e innocente piangevo insieme con loro i peccati di tutti». In Dialogo dei popoli cit., p. 275.

104 «‘La Patria’! pensavamo noi giovanissimi, ma già scontenti, ché avevamo sofferto duramente nelle trincee, la patria è un tutto di cui noi siam parte. Al cittadino è fallo considerar se stesso separatamente da lei. Ma questa è la patria del libro di lettura, che già il Metastasio metteva in versi nell’Attilio Regolo! Ma la patria vera è l’altra, quella che noi ci creiamo con la nostra sofferenza, col nostro assiduo sentire morale in un contrastante dissidio interiore. Il Manzoni, che noi leggevamo e ci postillavamo sin da giovanissimi, ci comunicava un senso molto amaro e direi ereticale della patria, quando svelava tutte le menzogne che si dicevano in suo nome. «“Voi altri milanesi che, per la bontà, siete nominati in tutto il mondo, sentite, sentite; siete sempre stati buoni fi... ah canaglia!”: questa rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra, che, uscita dalle mani di uno di quei buoni figliuoli venne a battere la fronte del capitano sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica. “Canaglia, canaglia” continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra e ritirandosi». «Ahi, chi scaglia una sassata a un fariseo è sempre un traditore della patria, è sempre una “canaglia”!». In Dialogo dei popoli cit., p. XII.